E’ a Napoli che trova ambientazione la tragedia di Merimeè, Carmen, nella versione fedele e innovativa, allo stesso tempo, di Enzo Moscato, che affida adattamento e regia a Mario Martone.
In scena al Bellini dal 12 al 24 aprile, lo spettacolo si proietta interamente nella bassezza dei quartieri spagnoli, da cui si erge la seduzione sfrontata della zingara Carmen (Iaia Forte) e l’ingenua violenza del soldato Cosè (Roberto De Francesco).
Il tutto è  accompagnato dalle musiche di Bizet rielaborate dall’Orchestra di Piazza Vittorio (direzione musicale di Mario Tronco) che prende parte attivamente alla rappresentazione, in un mondo in cui i musicisti sono attori, gli attori musicisti, e tutto si muove nella regola della contaminazione.
La zingara assorbe dalle mura della città, la cui rovina non ha presente né futuro, una forza tutta nuova: la Carmen napoletana, nella versione di Mario Martone, non muore (“Che vi devo dire? I’nun so’ morta!”) ma non è immune alle implicazioni dell’amore.
Carmen incarna il fascino stesso della città di Napoli, quella Napoli così “puttana e filosofa”, che si vende, tradisce, intrappola, distrugge, ma con l’onestà di chi fa per sopravvivere.
Non c’è amore a Napoli, amore per Napoli, che salvi. Ti concede per qualche istante la stupidità di chi crede di aver abbracciato la libertà, la ribellione alla definizione di se stessi: una puttana ama, un soldato uccide.
Ma quando sopraggiunge la consapevolezza che l’amore sia poco più che un istante in cui sorridi alle porte chiuse del tuo carcere, quando si fa spazio l’intuizione che il desiderio va a braccetto con la morte, ecco che una puttana resta una puttana, un soldato remissivo resta remissivo, cambiando solo l’autorità a cui sottomettersi: ieri la giustizia, oggi la malavita.
Perché Napoli non perdona gli stupidi innamorati e li punisce con la gelosia che rende folli, la debolezza che rende ciechi.
E’ una città severa, fatta, come Carmen, di “volgarità e rime”. Non solo inciviltà, non solo poesia, ma una combinazione dei due concetti che non è un riassunto, ma un rapporto di dipendenza in cui uno rafforza l’altro, e fa sì che Napoli sia, nella sua unicità, semplicemente Napoli.
E’ Napoli lo spettacolo incompiuto di un commediografo ubriaco che è morto sul pezzo, lasciando la città a farsi da sé.

“..Napoli, così come me, non può essere stata altro che se stessa.”