E’ una giornata piovosa in quasi tutta Italia, nonostante ci si aspettasse un giorno luminoso, forse per assecondare lo stereotipo colorato che una data del genere dovrebbe portare.

Perché oggi è il 17 maggio, data in cui, nel 1990, l’omosessualità fu eliminata dalla lista delle malattie mentali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e che, dal 2004, l’Unione Europea ha scelto per celebrare la giornata mondiale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia.

In tutta Europa, manifestazioni, eventi culturali, incontri politici che mettono in luce quanto è stato fatto e quanto c’è ancora da fare perché la violenza, il rifiuto e la discriminazione vengano debellati da un’inclusione forte e più ampia che mai.

Era il 1990.
Il gay pride era già un istituzione. La rivoluzione sessuale continuava a trascinare i suoi effetti, mostrandoli nella musica, nella televisione, nel cinema.
Era il 1990.
Era passato già molto tempo da quando Harvey Milk, primo politico apertamente gay a far parte delle istituzioni americane, aveva cambiato un certo modo di vedere l’omosessualità. Le sue parole erano arrivate alle orecchie di adolescenti impauriti da loro stessi e di anziani che non avevano mai trovato il coraggio di accettarsi, cambiando, migliorando, riuscendo a far stare meglio chi non vedeva una via d’uscita dal proprio essere “diverso”.
Una pallottola fermò il suo cuore. Fu troppo tardi, perché fortunatamente lo stendardo della liberazione omosessuale passava già di mano in mano, di Paese in Paese.
Era il 1990.
Madonna, indiscussa icona gay, ostentava la sessualità attraverso la sua musica. Un qualcosa che a molti dava fastidio, ad altri piaceva, lasciando intravedere ben più di uno spiraglio di folle libertà e coraggio.
Era il 1990.
Eppure, se eri gay, eri ancora costretto a subire il peso della parola: un peso non privo di conseguenze, visto che ti categorizzava in un canone ben preciso, quello del “malato mentale”. E se ti rivolgevi a un medico psichiatra, non era difficile che questi ti consigliasse di intraprendere un percorso di cura, che ti portasse ad abbandonare te stesso per finire nel circolo vizioso della negazione e dell’odio per se stessi.
Era il 1990. 26 anni fa.
Non si può parlare di una vita, ma nemmeno di una briciola di tempo. 26 anni dalla legittimità nel parlare di una perversione, di una malattia, non di un orientamento.

Da allora, il modo di concepire l’omosessualità è certamente cambiato. Ma ci sono fratture nell’evoluzione sociale, crepe che aprono scorci su un passato che si credeva superato, anche dimenticato.
A usare il termine perversione, infatti, sono stati, nel corso della settimana, alcuni esponenti di Forza Nuova che hanno attaccato il Gay Center di Roma, affiggendo alla porta un cartello che recava la scritta “la vostra perversione non sarà mai legge” e che hanno preso parte, protestando, a manifestazioni in cui si discuteva della nuova legge sulle unioni civili.
Ma, a fomentare, è anche chi si circonda di modi diversi, meno appariscenti, più subdoli. La politica di chi non tace, ma circonda i suoi sussurri di “se” e “ma” che ricordano tanto l’immondo giustificare le discriminazioni più feroci della storia.

Ecco il significato di questo giorno: festeggiare quello che c’è da festeggiare, ma anche tirarsi indietro tutto il carico di sofferenze che decenni di silenzi hanno determinato. Il fine di tutto è quello di riconoscere chi questo passato lo vuole ancora e ricordare che il regresso è più facile del progresso. Più giustificabile, meno eroico.
C’è chi oggi spera smetta di piovere, magari attende un arcobaleno che separi il cielo dal cielo.

Si spera sempre. Era così nel 1990, è così adesso.