Il giornalismo deve la sua forza e la sua affidabilità alla fotografia. La fotografia come verità ontologica, la fotografia come mezzo di espressione affidabile e onesto. Ma questa onestà ha bisogno di un’anima e di un punto di vista altrettanto onesto e rispettoso della realtà.
Dagli anni 60 in poi, nella grande Partenope, questo rispetto è stato sempre mantenuto da una delle figure più autorevoli della fotografia napoletana e italiana, andando ad osservare con occhio critico e senza pregiudizi quello che è stato il mondo artistico e rivoluzionario di quegli anni: vi presento Fabio Donato.
Fabio Donato nasce a Napoli in un contesto medio-borghese che gli permette di portare avanti studi e passioni riuscendo a immergersi nella realtà napoletana senza troppe difficoltà.
Con studi di architettura alle spalle, che gli hanno conferito una dedizione analitica e scrupolosa alla progettazione dei suoi lavori, mai lasciati al caso o alla foto “rubata”, ma sempre basata su un’analisi e una riflessione approfondita. La sua avventura nella fotografia arriva dopo esser passato per la musica, la pittura, la poesia, con un enorme spirito rivoluzionario e professionale, riuscendo a cogliere con passione la realtà, leggendo tra le righe di un popolo in continua evoluzione e rivoluzione.
Appassionato di teatro e comunicazione non si lascia scappare l’occasione di seguire quel che era il movimento d’avanguardia a napoli negli anni 70, e inizia a seguirne le vicende e i protagonisti di tale movimento, diventando poi uno di questi. Oltre a seguire l’ambiente artistico con un piglio sempre impegnato, un vero e proprio reporter della cultura, del libero pensiero, napoletano e non.
Fabio non è un semplice fotografo, lui non fa il fotografo, lui è un fotografo. Questa differenza sostanziale, anche se sottile agli occhi dei profani, fa comprendere quanto può essere complessa la lettura delle sue foto, non tanto per la complessita delle forme o dei soggetti, quanto più nella concezione e nella chiave di lettura che lui pone dietro una realtà che può sembrare banalmente espressione oggettiva di se stessa.
Citando colui che è tra i fotografi che meglio ha saputo rappresentare il momento dello scatto:”fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere.”
Fotografare non vuol dire creare semplicemente un immagine fruibile per qualche scopo, ma rendere la realtà uno spartito fatto di luci e ombre, dove ogni nota e accento ritornano un messaggio, un perché, e questo perché è la differenza tra chi fa il fotografo, e chi lo è, proprio come Donato.
Dopo anni passati tra teatri, quelli sperimentali degli anni 70, fino ai classici intramontabili quali quelli di De filippo, si dedica al reportage in giro per il mondo, specialmente in India (da osservare con molta attenzione e dedizione la sequenza dei piedi sul molo, presenti sotto la metropolitana di piazza cavour), andando a raccogliere quella che è una vera e propria ricerca degli elementi caratterizzanti di una cultura e di una povertà diversa rispetto a quella presente in europa, in occidente.
Poco fiducioso verso quello che è il mondo del web, ritiene che il dilagarsi di apparecchi digitali, capaci di elevare a fotografo chiunque, e della quantità pressochè infinita di immagini scaricabili gratuitamente dal web, abbia abbassato considerevolmente quella che è la qualità degli elaborati fotografici, andando a livellare quello che è il genio e il totale incapace che scatta per gioco, rendendo quasi nullo il divario professionale, e il rispetto verso la fotografia come mezzo di espressione.
Ma soprattutto il problema principale che denuncia alle attuali tecnologie è la quasi scomparsa della fotografia stampata. Ormai si è perso il contatto fisico, e soprattutto la possibilità di poter riprendere, senza dover cercare un file in mezzo ad un mare, foto scattate anche decenni prima, rivivendo sempre con la stessa intensità i momenti, e i “discorsi” immortalati. Internet e il web, per la sua velocità e la sua dispersione, non potrà mai regalare tale emozione, non potrà mai sostituire il proprio archivio personale.
Dopo decenni passati in giro per mostre, progetti fotografici e teatri, Fabio decide di donare il suo sapere e la sua arte agli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, non solo diventandone docente di fotografia, ma istituendo un vero e proprio corso dedicato. Suo principale scopo è quello di insegnare all’allievo che la fotografia è un linguaggio con cui ogni giorno ci si confronta e si entra in contatto, cosciente o non, cercando di mostrare l’illusione dell’oggettività davanti alla doppia funzione soggettiva della foto in se.
La doppia soggettività è data proprio dall’ambiguità alla base di ogni messaggio, di ogni immagine, di ogni scena ripresa dal reale, ma soprattutto dalla base culturale del fotografo, quindi la sua visione della foto, e quella dell’osservatore finale, che a sua volta la leggerà in base ai propri contenuti che non sono tenute a coincidere, ma devono essere libere entrambe di poter leggere, creandone così un immaginario collettivo.
Nacque la fotografia e gli uomini-narciso divennero immortali. La loro vanità fu finalmente soddisfatta.
Che diabolica invenzione è questa il cui prodotto è paradossalmente sempre a cavallo tra il passato ed il futuro, senza mai essere nel presente? E che vive questo fotografo nel mentre ferma la vita trasformandola in morte?
Quale spessore avrà quella linea di demarcazione tra vita e morte, prima e dopo, dentro e fuori, falso e vero, soggetto ed oggetto, conosciuto ed ignoto…
Ma probabilmente gli uomini fotografi producono immagini solo per esorcizzare questa morte che forse non c’è.
Fabio Donato
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