Sul Vesuvio c’è già il gelo. Tutta questa pioggia rende il mio popolo malinconico e pensieroso. Ho prestato ascolto ad ognuno di loro, e fra tutte una voce m’è giunta chiara, e irreprensibile. Ho sentito la rabbia. La disillusione è arrivata fin qui, sulla cima del vulcano. Ho scovato uno sguardo tra tutti e mi sono resa conto che aveva ragione: per una volta mi sono lasciata andare alla malinconia che prende le persone normali. E ho capito. Ho abbassato lo sguardo verso di loro e dopo molto tempo ho provato sconforto. Oggi non parlo io. Oggi parla lui.
Ho aspettato l’aria del giorno dopo, quella delle notizie più ufficiali e “certe”, l’aria fredda che con la notte ha cercato di mettere in ordine le sensazioni confuse e negative, ma non è cambiato molto.
Quando sei uno che si fa un’opinione su quello che accade attorno, che per riflesso automatico ne genera delle considerazioni, dovresti cercare di capire come le cose sono andate davvero, o la versione che quanto più le si avvicini, perché la tua stima finale abbia un ché di adeguato, e non risulti il solito pianto a caso, o dito inquisitore (ancora più a caso).
Ho aspettato un giorno per pensarci bene, e dividere le sensazioni negative negli scompartimenti appositi, ho aspettato il mattino seguente perché l’aria di questo pessimo ottobre potesse rivelare qualcosa di logico alla fine di tutta questa storia.
Ma non è successo nulla del genere.
L’unica considerazione che ritorna, che è stata peraltro la prima e istintiva appena appresa la notizia, è che porco mondo stiamo tirando su se un adolescente crede di non avere alcuna alternativa alle sue paure?
Quanto riesce a farci a sentirci soli, quanto ingrandisce le angosce al punto di scegliere di non essere più?
La crisi è profonda e non è il solito messaggio contro gli stereotipi a cui si fa sempre riferimento, del bullo o della delusione d’amore.
Non riguarda solo la scuola, solo le persone che frequenti, solo le prospettive che non hai o reputi da solo irrealizzabili.
La crisi è l’aria che respiriamo ogni secondo.
Quanto questa impostazione della vita oggi, in ogni sua sfaccettatura, riesce a farci sentire soli e inermi?
Soprattutto in che modo questo coinvolge un uomo di quarant’anni quanto un ragazzo di diciassette?
Diciassette.
La depressione è una malattia, non uno sfoggio di esibizionismo o una facile fuga, come molti per comodità, ed egoismo, decidono di semplificare. È una malattia che come tutte si può curare, come tutte va’ categoricamente prevenuta. Le persone non scelgono di essere tristi, siamo fatti in un dato modo per troppi motivi per ridurre tutto all’autodeterminazione. Chi la pensa diversamente non ha mai vissuto neanche di striscio un problema del genere, e preferisce pensare che basti decidere di essere felici per esserlo davvero.
Il problema è che questo mondo, questo porco mondo per come è strutturato oggi, crea delle aspettative troppo grandi per chiunque. E in ogni momento siamo convinti di dovercela fare, di dover essere qualcuno, per avere un senso in mezzo agli altri. E alla fine, quando non ci riusciamo, quando capiamo che ci siamo prefissati degli obiettivi incompatibili con quello che siamo naturalmente, ci sentiamo dei falliti. Distruggiamo ogni considerazione che abbiamo di noi perché non siamo andati bene.
Fuori-posto, in questo porco mondo.
Le persone depresse hanno bisogno di comprensione, tanta quella che richiedono i malati di cancro o di qualsiasi male che alla fine ti porta via.
Non vuole essere il pianto di chi dice che poteva finire diversamente, però bisognerebbe fermarsi un attimo e capire. Capire realmente cosa ci sconfigge ogni giorno… E non è una cosa particolare, ma è quello su cui ruotano le nostre vite, il dover reggere il confronto con delle aspettative, degli obiettivi fittizi che ci siamo prefissati per sentirci giusti.
Ma la vita non è questo. Non è quando sei qualcuno che ti sei impostato di essere che sei felice.
Abbiamo un senso in mezzo agli altri, a prescindere dagli eccessi caratteriali, siamo vivi nel momento in cui riusciamo a stabilire una connessione con qualcun altro, e ci sentiamo compresi, non soli, complici.
Con le parole, la musica, gli sguardi.
Ognuno ha il suo modo, ma è l’empatia che ci salva. E salvarci è un nostro dovere morale, perché è probabilmente l’unico modo di vivere dignitosamente in questo porco mondo.
Significa alla fine di tutto farlo soprattutto per noi stessi, perché diciamo le cose come stanno…se un ragazzo di diciassette anni decide di farla finita sotto a un treno,
abbiamo perso un po’ tutti.
Elle.
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