I primi appartenenti a questa categoria sono stati i più fortunati: la visione che li accolse al primo arrivo fu quella di una rigogliosa coperta verde posata su colline morbide e rassicuranti, accarezzata dalle serene acque azzurre di un golfo quieto. Una morfologia a noi sconosciuta, una pace bucolica ormai lontana.

Tutto il territorio che si sviluppa alle spalle di quello che oggi conosciamo come Golfo di Napoli, già nell’VIII secolo a.c., era discretamente abitato dagli Osci, una popolazione indigena, dell’entroterra, che poco era avvezza al rapporto col mare. Più a nord invece c’era la metropolis Cuma, ovvero la città madre degli stranieri “neapolitani”, i Cumani.

I Cumani, rispetto agli autoctoni Osci, avevano progetti molto più fruttuosi per la futura Neapolis, nonostante la loro condizione di stranieri: avevano immaginato questa regione del Mediterraneo come un frutto da coltivare con attenzione che potesse così accrescere la loro egemonia; infatti, grazie ai rapporti con la madrepatria, fu possibile realizzare questo grandioso piano. La fecondità di questa colonia diede una spinta così forte alla sua stessa ricchezza che arrivò persino a sorpassare quella della propria città madre, dando anche per questo un nuovo significato alla denominazione “città nuova”. Oggi la natura del “nuovo“, di solito visibile negli occhi degli stranieri, si è insinuata nello sguardo dei napoletani, che tornano insieme ai turisti a guardare alle proprie ricchezze, forse anche grazie all’entusiasmo di chi arriva da fuori. In un mondo sempre più legato alla necessità di aprirsi all’altro, soprattutto per recuperare la fertilità di tempi andati, lo straniero può innanzitutto mostrare a noi una prospettiva di Napoli che può farla rifiorire. Quasi sicuramente adesso la prima immagine che incontrano gli occhi degli stranieri non è più la Napoli marina ma quella aerea, che abbraccia non solo il nucleo cittadino ma anche tutta l’area flegrea e quella della costiera, fino a spingersi più a sud verso i paesi vesuviani e quelli a nord sulla strada per Caserta. Adesso Napoli è anche tutto questo. La prospettiva dall’alto, soprattutto con il desiderio irrefrenabile di atterrare, genera un quadro eccessivamente positivo: tutti i difetti si perdono nella grana fine di una fotografia vista da lontano. Però, più l’aereo si avvicina al terreno, più emerge un accumulo di cemento, disordine, caos. Le aspettative sono in parte deluse. È proprio questa accozzaglia il riassunto della gran parte delle storie su Napoli che provengono dall’estero, lì si diffondono e piantano radici profondissime.

Chi ha vissuto all’estero o è in contatto con stranieri lo sa bene. Ogni volta che parto e vado via dall’Italia so che mi aspetta una grande sfida: spiegare ogni volta cos’è la mia città. Quando mi chiedono da dove vengo e rispondo che sono di Napoli, la mia prima reazione è di stupore perché tutti la conoscono (anche se non tutti sanno dov’è: una volta una ragazza tedesca mi ha chiesto se non fosse quella grande isola a sud), ma la seconda reazione è legata alle loro domande successive, ovvero “ma è vero che a Napoli c’è così tanta immondizia che è impossibile camminare per strada?” oppure “ma è vero che a Napoli c’è così tanta criminalità che rapinano e sparano chiunque?” A tutti noi queste domande un po’ fanno ridere e un po’ fanno stizzire, e a dire la verità mi ricordano un po’ cosa domandava anche Mario (Massimo Troisi) a Vitellozzo (Carlo Monni) in “Non ci resta che piangere” sulla Toscana medievale. Puntualmente mi armo di santa pazienza e spiego con calma la situazione in cui ci troviamo, senza nasconderne né le luci né le ombre, ma soprattutto sottolineando il ruolo della stampa nazionale e internazionale. Alla fine di una discussione che si può rivelare molto breve o lunga ore (dipende dall’interesse dell’interlocutore), tutti immancabilmente cambiano espressione, passando da un’aria di sufficienza verso il posto in cui sono nata alla sensazione di inadeguatezza del proprio senso critico.

Considero queste discussioni una delle piccole “missioni” di cui è composta la mia vita, e porto avanti l’immagine più veritiera possibile di Napoli, nei limiti delle mie capacità. Questo è ciò che faccio con gli stranieri, ma è ciò che tento di fare anche con gli italiani (che nei confronti di Napoli sono sempre un po’ “forestieri”) e, soprattutto, con i napoletani stessi. Quando mi trovo di fronte ad uno straniero, nonostante tutte le negatività che racconto e che mi vengono raccontate, e che certamente non posso celare, porto alta la bandiera della Napoletanità.

È una strategia che ho spontaneamente adottato dopo tutti i miei viaggi; immagino che il motivo sia semplicemente legato al fatto che un’immagine positiva dentro di sé è il primo passo per ottenere un’immagine positiva al di fuori di sé.

 

Martina Di Pasquale