“Partirai non, morirai. Partirai, non morirai”.
Partire o restare?
Alla Sibilla bastava una virgola per capovolgere la situazione. Per le giovani generazioni è un po’ più complesso. L’illusione di andare, la certezza di restare. Le radici contro la spinta di realizzazione. Questo è un po’ il sentimento che, almeno una volta nella vita, hanno provato i giovani napoletani (anche i meno giovani per la verità) nei confronti della propria Terra. Questo il dilemma che affligge ed ha afflitto (ma si spera non affliggerà nel prossimo futuro) le nuove generazioni.
A trattare dell’argomento sono scrittori, giornalisti, sociologi, psicologi e chi più ne ha più ne metta, attuando un bombardamento giornaliero costante, una sorta di lavaggio del cervello, un effetto boomerang che, ironia della sorte, pare quasi voluto. Cifre e percentuali ci inseguono durante la giornata, che sia mangiando dinanzi alla tv o in bagno mentre ascoltiamo la radio… Un filone di negatività incita a seguire le masse, ad andare via, a partire. Ma come viene vissuto tutto questo da un giovane che abita a Napoli, in Campania o, in generale, al Sud Italia?
Probabilmente gli atteggiamenti simbolo della reazione al fenomeno mediatico, sono riassunti in “Tre terroni a zonzo” di Antonio Menna, non a caso lo stesso autore di “Se Steve Jobs fosse nato a Napoli”, un titolo emblematico. Entrambi i volumi, editi da Sperling & Kupfer, raccontano di una Napoli che è croce e delizia, che quando fai da sardina nei trasporti pubblici fa pensare di lasciarla, ma quando termini il “vulcanico” tragitto da pendolare, fa subito cambiare idea.
Il tutto con quelle sue radici che ti trattengono ma possono anche allargarsi, in modo da portartela dietro e “comunicarla” in qualsiasi parte del mondo tu sia. Un concetto, questo, ben espresso da Sergio Assisi durante un’intervista circa il suo primo lavoro cinematografico da regista: “A Napoli non piove mai”. Che poi, meteorologicamente parlando, sappiamo che non è vero, ma è come se a Napoli davvero non piovesse mai: l’ospitalità che pervade ogni luogo e il passante che ti dà una mano se cadi o se ti vede triste, non è un luogo comune, e questo può dirlo chiunque. Magari è anche vero che la vecchietta di fronte non si fa troppo gli affari suoi, ma questo è solo uno degli ossimori della realtà partenopea che, altrimenti, non sarebbe quello che è. Contrasti, questi come molti altri, che attanagliano i “Tre terroni a zonzo” di Menna, in un continuo dilaniarsi tra andare e restare. E’ così che due su tre decidono di partire: Ilaria si reca nella tanto decantata Milano, Michele nella tanto conosciuta Londra, mentre Diego Armando resta nella tanto “sentita” Napoli, e non solo perché il suo nome, altrove, suonerebbe ridicolo, ma perché, altrimenti “qui chi rimane?”: dilemma amletico sul quale, chiunque “senta” un minimo la sua Città, non può non soffermarsi. L’infelicità pervade gli animi di tutti e tre i giovani: i primi due, nonostante la realizzazione economico-lavorativa, il terzo a causa della mancanza di quest’ultima.
Dunque… Partire o no? La risposta? Vale la pena leggere il testo per assaporare i sentimenti dei protagonisti che sono ben descritti nel contesto di riferimento partenopeo, sia sotto il profilo “empirico” che passionale. Di certo, un’ideologia traspare palesemente dal testo: l’ostinazione premia, nonostante i sacrifici e le bastonate, ma bisogna volerlo e volerlo vuol dire essere disposti ad una lunga serie di… Puntini sospensivi al posto dei quali ognuno è libero di aggiungere le sue esperienze personali. Ma, del resto, anche questo è “sentire” Napoli, nel bene e nel male.
Francesca Martire
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