Nell’abitacolo i suoni erano attutiti e, in quei minuti freddi e allungati dalla solitudine, il mondo esterno appariva solo una patina opaca che ricopriva i finestrini.
“Ci sei? Pronto?”
Dall’altra parte, però, solo un suono sordo.
Un ringhiare stantio che le fece allontanare il telefono dall’orecchio.
Lui era appena andato via, aveva chiuso la portiera mentre le macchine dietro suonavano i loro clacson come un inno alla fuga.
Lei gli aveva afferrato un lembo del cappotto che lui aveva strattonato, forte.
La vibrazione di quel gesto aveva viaggiato attraverso i pochi centimetri di stoffa fino alla sua mano, fino a lei che aveva ceduto. Senza volere.
Era rimasta così, con la mano tremante, e lì sul sediolino il pacchetto del suo ultimo regalo, luccicante nella carta natalizia.
Lo guardò di sbieco, sgualcito come una mano rattrappita dalla vecchiaia.
“Dannata radio”
Tentò di spegnerla.
“Dannata radio. Dannata radio. Dannata radio” disse, sempre più forte, gettando manate alla cieca sulla lucina rossa accesa accanto allo sterzo.

“I’ll be home for Christm…” silenzio.
Finalmente silenzio.
Cazzo.
Silenzio.

Mentre scendeva verso sud, il cielo roseo del pomeriggio sbiadì in una festa di ombre notturne che circondavano la sua auto.
Roma alle spalle.
Direzione Napoli.
Qui e lì, le luci delle case le graffiavano gli occhi, schegge dorate e rosse, linee feroci che le abbassavano un po’ le palpebre.
Aveva scelto la strada più lunga, quella con cui avrebbe sicuramente perso la fase iniziale del cenone, quella in cui tutti i parenti ti guardano, ti studiano, fanno domande, parlano di matrimoni, figli, chalet in montagna e progetti per capodanno.
Lei di progetti non ne aveva, non voleva averne.
Erano le 18:38 del 24 dicembre. La sua macchina glielo ricordava con quei numeri stilizzati che brillavano di un arancio irreale.
18:40
18:53
19:04
Stop.

Lo vide da una certa distanza.
Scorse prima la sagoma sottile, la sciarpa lunga che quasi toccava terra. Illuminato dall’insegna al neon di un albergo a due stelle.
Gli occhi invisibili, quella che sembrava una grande mano inguantata protesa verso la strada.
Lei accostò.
Aprì il finestrino e l’aria fredda del mondo sembrò l’aria pesante che si respira ad alte quote. Quella che ti si ferma in gola e non scende se non con uno sforzo che ti fa sporgere il pomo.
“Vado a Napoli”
“Va bene, vengo con lei”.

Da dove viene?
Dal nord.
Dove va?
A sud.
Perché in viaggio a quest’ora e in questo giorno?
Per lavoro.

Va bene, straniero. Pensò lei, mentre iniziò a razionalizzare lentamente di aver caricato in auto un perfetto sconosciuto dall’età indefinita e gli occhi che, anche da vicino, sembravano ancor più invisibili, infossati nella sporgenza delle ossa del viso.
“Lei perché è in viaggio a quest’ora?” domandò lui, con una voce un po’ ruvida.
“Perché ero andata a trovare il mio ragazzo a Roma”
“E non passa con lui la notte di Natale?”
“No, lui la passa con la moglie e i figli. Abbiamo litigato”
“Ah, capisco” disse lui, giocherellando con le dita sul finestrino.
“E lei? E’ sposato?”
“Lo ero, ma mia moglie mi ha lasciato per il mio migliore amico”
“Ah, capisco” disse lei, con la voce improvvisamente bassa.
Il paesaggio si fece a poco a poco più denso: le villette isolate divennero palazzi dall’aria urbana, si avvicinavano l’un l’altro fino a toccarsi e diventare enormi mura che non lasciavano intravedere più le montagne dal lato del guidatore. Una parete di cemento con qualche azzardo luminoso e luci a intermittenza che scendevano dai balconi tutti uguali.
Lei sentì un groppo in gola, la sua parola si bloccò come la vista verso est.
Scoppiò a piangere mentre, con le mani, teneva il volante freddo e sentiva con la pelle del viso il calore della stufa che si affannava a riscaldarla.
“Possiamo anche accostare un attimo se vuole”
“No, va tutto bene. Sarebbe opportuno accostare per tutta la vita, ma non credo sia possibile” disse lei.
“Se fosse possibile accostare tutta la vita, io accosterei proprio in quel punto” disse, indicando una piazzola di sosta poco più avanti.
La macchina rallentò gradualmente, il cielo buio non faceva più ombra su nulla e la vettura scura sembrava un invisibile massa di aria che graffiava l’asfalto.
Fu quel rumore a farle ricordare del Natale.
Il peso dell’automobile sull’asfalto.
Poi l’auto si fermò, la portiera si aprì e l’aria gelida entrò nell’abitacolo, posandosi sui sedili, infilandosi nelle fessure dello stereo e del sistema di riscaldamento.

Scesero dall’auto.
Lei si rigirò la sciarpa intorno al collo e lui affondò le mani nelle profonde tasche del giaccone, lasciando scomparire le braccia nei contorni scuri della sua figura.
Si avvicinarono al guard rail, come due viandanti in un bosco rettilineo di cemento.
“E’ quasi Natale” disse lui.
“Stai fermo. Non muoverti”
Tornò alla macchina. Lui la vide quasi scomparire nel buio dell’autostrada deserta, poi tornò con un pacchettino sgualcito.
“Preferisco questo lo prenda tu. Buon Natale, straniero”
“Buon Natale, straniera”.
Poi lui aprì il pacchetto.
Di fronte a loro una distesa di luci che arrivava fino all’orizzonte.