“Vesuvio, lavali col fuoco”
Recita così un coro da stadio che fece scalpore.
Le immagini, ripetute in una sequenza infinita, si sono accavallate su ogni canale televisivo. Sdegno, indignazione, rabbia da alcuni, tentativi conciliatori da altri.
Pochi giorni fa nuove parole hanno occupato uno stadio, il San Paolo, con la loro ingombrante presenza.
“Frocio” e “finocchio” ha detto Sarri, l’allenatore del Napoli, al collega Mancini, allenatore dell’Inter.
Da lì, il giornalismo ha fatto il suo corso vacillando tra l’informazione e il pettegolezzo, tra la critica spietata e la benevolenza.
Da un lato c’è chi condanna fermamente le parole di Sarri, trascinandolo nella schiera dei condannati al mattatoio.
Dall’altro c’è chi ritiene che, sul campo, molte parole vengano dette quasi per consuetudine, molte offese siano prive del loro effettivo contenuto, come lettere che fanno da cornice a un intento che manca.
Anche l’Arcigay ha condannato l’atto, ma non ha demonizzato Sarri, anzi l’ha invitato a partecipare al corteo in sostegno alle unioni civili che si terrà sabato 23 gennaio.
Da Debora Serracchiani a Berlusconi.
Da forza politica a forza politica.
Ognuno ha detto la sua, facendo della questione il mantra spietato della settimana, forse del mese. La questione irrisolta che aprirà a infinite interpretazioni e dibattiti televisivi.
Tanto rumore per nulla, dice qualcuno, citando Shakespeare.
Sono solo parole, dice qualcun altro, citando una celebre canzone sanremese.
Ma sono davvero solo parole?
Anni fa, durante gli anni del liceo, un supplente di cui non ricordo il nome entrò in classe e sentì un mio compagno usare la parola “finocchio”.
“Sai perché si usa questa parola per indicare gli omosessuali?” chiese con una calma negli occhi che impose a tutti il silenzio.
Il mio compagno non rispose. Lui continuò.
“In passato, insieme ad altre minoranze, anche gli omosessuali venivano uccisi per il solo crimine del loro essere.
Nello bruciare i loro corpi, per coprire l’odore di carne bruciata, i finocchi venivano gettati nel fuoco con loro”.
Una pratica che si sarebbe diffusa nel medioevo e che sarebbe stata riprodotta, secondo alcuni, anche durante il periodo nazista nei campi di sterminio.
Le parole hanno una storia, un peso, una vita, una responsabilità che gli si allaccia addosso per millenni. Chi ha studiato le “lingue morte” lo sa bene. Usarle con leggerezza non è un crimine. Ma lo è sminuire la loro portata fino a farle consapevole o inconsapevole portavoce di violenza e discriminazione.
Sarri non è l’incarnazione dell’omofobia.
Sarri è l’emblema del nostro peccato: il peccato che commettiamo tutti quando diciamo “polacca” per indicare la donna dell’est europa, “terrone” per indicare l’italiano del sud, quando usiamo la parola per coprire l’ignoranza.
La sua colpa è anche la nostra. Ma la sua espiazione è più dura, perché è un personaggio pubblico.
Forse, però, Sarri ha un suo merito: quello di aver fatto appena emergere, nel mondo sportivo, l’ombra di un’omosessualità che esiste, ma è occultata in un’ omertà fieramente ostentata da chi, come Lippi, sostiene che nel calcio non ci siano omosessuali.
Guardiamo il lato positivo.
Forse, da domani, quando in campo verrà usata la parola frocio, finocchio, ricchione, a rispondere all’appello dell’indignazione ci saranno anche altre persone.
Forse, da domani, a indignarsi non saranno i tifosi, ma lo sport.
E, forse, di fronte alla certezza di uno sport che si indigna, impareremo finalmente che non esistono categorie, spazi, luoghi esenti dalla violenza delle parole.
Perché sia a scuola sia al San Paolo puoi trovare qualcuno che ti spieghi la storia della parola “finocchio”.
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