“ […] Amore è antichissimo. E, così com’è il più antico, è fonte, per noi, di grandissimi beni. Io, infatti, non so se vi sia un bene maggiore che avere, fin da giovani una persona virtuosa da amare o anche viceversa, che ci ami. E, in effetti, niente come Amore può dare all’uomo quei principi che valgono per vivere rettamente tutta la vita, non la nascita, non gli onori, non la ricchezza, niente di questo. […] Oh, se ci potesse essere una città o un esercito composto tutto di innamorati, non vi sarebbe modo migliore di reggerlo e di vedere uomini rifuggire dal male e rivaleggiare tra loro nelle belle azioni; in guerra, poi, messi uno al fianco dell’altro, anche se in pochi, si può dire che vincerebbero il mondo intero.”
Platone, nel suo Simposio, parla, per bocca di Socrate, dell’Amore.
Eros, figlio di Poros e Penia, è visto come un demone, a metà tra il divino e l’umano.
L’amore descritto da Platone (amore platonico) è un amore idealizzato, che non per forza esclude l’aspetto sessuale e/o passionale. Platone sosteneva che ci fossero diversi livelli di amore platonico che, partendo da un’attrazione tra corpi, si arriva ad un amore sublimato, un amore superiore, che consente di trascendere dalla realtà sensibile, dalla contemplazione della bellezza sensibile, per arrivare all’amore inteso come moto dell’anima che porta alla verità e alla bellezza ideale ed immutabile.
L’amore spirituale (agape) in contrapposizione a quello carnale.
L’amore idealizzato può assumere diverse forme e può avere come oggetto qualsiasi cosa (materiale o immateriale) o persona.
L’esempio di idealizzazione a noi più vicino è l’amore per la nostra città, Napoli.
Napoli è bella, sinuosa, sensuale, passionale, generosa, ma anche insidiosa e pericolosa perché, quando meno te lo aspetti, è capace di farti soffrire, di tormentarti, di abbandonarti. Si idealizza l’amore per Napoli perché ad essa si guarda come dei figli che guardano la loro madre, avendo la consapevolezza che Essa non farebbe loro mai del male, non li tradirebbe mai perché, quasi come una sorta di giustificazione, si appartiene ad essa, si è frutto delle sue viscere. Ma non è così.
Questo è il rischio che si corre ogniqualvolta si crede di appartenere a qualcosa o a qualcuno, o che qualcosa o qualcuno ci appartenga.
È quello che succede quando si idealizza l’amore per qualcosa o, soprattutto, qualcuno.
L’idealizzazione dell’amore ci espone al rischio di diventare “schiavi”.
L’amore spirituale è pertanto, tra le forme d’amore, probabilmente quella più pericolosa, quella che può portare allo svuotamento (kenosis).
L’amore idealizzato è un amore solitario, fatto di proiezioni, di pensieri individuali, di partner fittizi creati solo dalla nostra mente per compensare l’assenza di una persona tangibile.
E’ il risultato del sentimento che si prova verso una persona creata esclusivamente dalla nostra immaginazione, pertanto scevra da un’analisi critica che ci porta a concepire con la fantasia un rapporto idilliaco e indefettibile poiché controllato solo ed esclusivamente dalla nostra mente.
Un rapporto unilaterale e privo di contraddizioni, inesistente pertanto, data la necessaria bilateralità che è richiesta dai rapporti interpersonali.
L’idealizzazione innalza la persona verso la perfezione, perché essa corrisponde solo ed esclusivamente ai desideri creati dalla persona “schiava” dell’amore.
Idealizzare significa letteralmente sollevare dalla realtà al mondo superiore della fantasia, dell’immaginazione, della perfezione. Significa sublimazione. L’atto dell’idealizzazione fa sì che si proietti l’immagine di una persona in tutte le altre con le quali si avrà un approccio. Ed è proprio a questo punto che si può definire tale atto quale “errore”. A queste condizioni, infatti, inizialmente si starà bene con una persona, poi si avranno dubbi circa il rapporto instaurato con quest’ultima, essendo tale rapporto solo il simulacro di un rapporto vissuto in precedenza, infine ci si riterrà insoddisfatti della stessa perché ci si renderà conto che non ci dà ciò che noi ci aspettiamo ci dia, aspettative alimentate dal semplice fatto che, l’individuo idealizzato che noi ci sforziamo di vedere in un’altra persona, ci dava, ovviamente, cose diverse rispetto a quest’ultima. Pertanto, facendo ciò, si resterà solo delusi perché, quando si acquisterà la lucidità persa, si prenderà atto dell’impossibilità di tale proiezione, perché ogni persona è a sé stante, ha una propria storia, ha vissuto proprie esperienze, ha un proprio modus vivendi. Dunque è diversa da tutte le altre. Dobbiamo, quindi, essere noi a metterci nella condizione di poter essere soddisfatti, e ciò accadrà solo quando ci impegneremo a conoscere un individuo nella sua essenza, e non nell’essenza che noi siamo inclini attribuirgli. Nessuno infatti è nato per darci ciò che noi ci aspettiamo ci dia, nessuno è nato per fare ciò che noi riteniamo opportuno faccia. Nessuno, nonostante l’idealizzazione ci faccia pensare che sia un essere perfetto, puro, è tale. Pertanto, solo quando smetteremo di sublimare una persona, possiamo dirci liberi, perché abbiamo rotto quel cordone ombelicale che ci teneva uniti (o forse incatenati) alla stessa; possiamo scoprire altri mondi in cui rifugiarci; possiamo scoprire altri porti sicuri. Sarà la nostra “voluntas” a decidere quanto a lungo farci annullare e mortificare dalla nostra immaginazione. Solo dopo aver preso atto di tutto questo, possiamo ritornare a vivere, possiamo dirci finalmente vivi.
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