Napoli, 27 agosto 1973, un tintinnio incessante, fece riprendere coscienza al dormiente Gino, che realizzò che quel rumore fastidioso, che lo aveva riportato alla realtà, erano goccioloni d’acqua che cadevano sulla ringhiera arrugginita del palazzo.

“Piove” realizzò, e immediatamente fu colto da un pizzico di rabbia per aver sprecato il suo ultimo giorno di ferie. Gino aveva 25 anni, e da un anno era stato assunto al Cotugno, come infermiere. Tutto ciò che sapeva fare nella vita, lo aveva appreso da sua zia, la sorella della madre, anch’ella infermiera. Ricordava nei minimi dettagli tutte quelle trasfusioni di insulina che  aveva visto fare a sua madre, morta di diabete. Con precisione, in un attimo, vedeva entrare l’ago nelle vene e iniettare la sostanza; non si era mai impressionato alla vista del sangue, piuttosto per le facce di tutti i dottori, che dopo ogni visita, scuotevano la testa rassegnati alla degenerazione della malattia.
Quel mattino, i suoi pensieri, ancora tra veglia e sonno, furono improvvisamente interrotti dallo squillare incessante del telefono, Gino lo guardò vibrare nevroticamente, e quasi ebbe paura si staccasse dal muro. La telefonata non sembrò migliorare il suo umore, attaccò la cornetta, si vestì e uscì frettolosamente. L’ospedale aveva bisogno di tutto il personale disponibile, c’era un’emergenza, ma Gino non aveva avuto tutti i dettagli di quello che stava succedendo e mai avrebbe immaginato. Quando arrivò, si accorse che era completamente zuppo, a causa dell’incessante pioggia, così senza domandare nulla si diresse nello spogliatoio, dove avrebbe potuto indossare abiti asciutti e il suo camice. Dinnanzi a lui un via vai di infermiere e dottori che passavano da una sala all’altra e bisbigliavano più del solito, poi ecco il caposala entrare nella stanza, e mentre Gino appuntava gli ultimi bottoni, gli iniziò a dare alcuni dettagli della situazione.
C’erano stati due casi, gravi, di gastroenterite acuta. I dottori erano molto preoccupati, e infine l’uomo, quasi tremando, con le labbra e con voce flebile, pronunciò “Gì’ si parla di colera…”.

 
Quel giorno Gino entrò in ospedale ignaro di quel che sarebbe stato da lì a 15 giorni il suo destino. Barricato in quell’edificio fino alla fine, anche se non sapeva quale sarebbe stata la sua fine… Bisognava stare in quarantena, prevenire il contagio; le perizie, le inchieste, le indagini per la ricerca al colpevole erano partite, e per quanto le istituzioni avessero cercato di mantenere la calma e non seminare il panico tra i cittadini, tra i vicoli dei quartieri si vociferava, si avvertiva qualcosa di terribile nell’aria. C’era paura.
Dopo alcuni giorni, davanti ai cancelli dell’ospedale, la gente si accalcava e spingeva, urlando: chi voleva il resoconto del bollettino (una lista di nomi di quelli che non ce l’avevano fatta, erano morti, magari durante la nottata) e chi voleva essere vaccinato. I media contribuivano alla generazione del caos, e parlavano delle cozze, i mitili di cui molti pescatori si servivano per sopravvivere, come i colpevoli del temuto male: il vibrione del colera. A metà settimana arrivarono gli americani, con furgoni carichi di vaccini, si erano distribuiti in varie strutture e zone, anche nelle piazze. Sparavano la medicina da pistole-siringhe, le stesse che avevano utilizzato anche in Vietnam. Gino non aveva mai visto quell’aggeggio, almeno non da così vicino, e rimase ancor più impietrito quando si accorse che a maneggiarlo era una giovane donna. I suoi lunghi capelli ondulati e color del grano le scivolavano lungo le spalle, fin dietro la schiena. “It’s okay, the next…the pro-xim-o…” la sentì pronunciare goffamente. La sua voce, così buffa e dolce, gli provocò una stretta allo stomaco, così forte che per un’istante credette di essere stato infettato.

All’improvviso, una donna, in fila per essere vaccinata, svenne, Gino e la ragazza straniera si precipitarono a soccorrerla, la sollevarono tenendola per le braccia e le gambe e la sistemarono su una barella. Dopo che i dottori portarono via la barella con la donna, Gino si sentì di nuovo una stretta allo stomaco. In quei giorni molti erano stati i sentimenti provati, perlopiù quelli di paura, dubbio, sconforto, stanchezza, inquietudine. Ma quando aveva sollevato quella donna da terra e aveva sentito la sua mano sfiorare quelle della giovane straniera si sentì in colpa. Poi si girò la guardò e lei accennò un sorriso, anche lei era spaventata. Forse non era poi così brutto che Gino avesse trovato un po’ di conforto in quella donna di cui non conosceva nemmeno il nome. In quei giorni lo scoprì, Bea si chiamava, era americana, ed era anche lei infermiera. In quei giorni parlarono a lungo, e tra i due nacque l’amore. In tutto quell’inferno, i giovani amanti riuscivano a ritagliarsi uno spazio, un luogo in cui lasciarsi andare alla passione, dimenticare quell’odore di malattia nell’aria, le morti, le urla. Tutto si trasformava in silenzio, l’unico rumore erano i loro respiri, le mura divenivano spazi bianchi, vuoti, si riempivano solo dei loro corpi.
Erano passate quasi due settimane, e finalmente si seppe che la causa di tutto erano sì i mitili, ma non appartenevano al golfo di Napoli, arrivavano dalle coste della Tunisia. I casi di infezione si ridussero sempre più, e anche il panico in città cominciò a svanire. Con esso svanì anche il senso di colpa che Gino, inevitabilmente, aveva provato nel trovare tutta quella felicità in un momento così triste. Ma ora il peggio era passato e al senso di colpa, si sostituì una certa angoscia. Gli americani stavano preparando di nuovo i furgoni, dovevano fare rientro in patria. Bea non si presentò quel giorno in ospedale, e nemmeno agli appuntamenti quotidiani col suo amante, ma si preoccupò di fargli recapitare una lettera. Lo amava, ma voleva cancellare tutta quella storia infernale una volta tornata nel suo paese. Lei lo avrebbe dimenticato, rimosso come una macchia di sugo su una canotta bianca. Come la vergogna di una malattia, la paura di perdere il controllo una volta contratta, e il delirio della sofferenza.

Quella che provi quando sei irrimediabilmente legato a qualcuno, a qualcosa.