Penso a Didone e ai suoi capelli. Li sento sfiorarmi la guancia e non posso fare a meno di toccarli. Il vento s’alza e la sensazione di prurito invece d’aumentare scompare nel nulla. Porto il palmo della mano al volto per fermare l’ultimo tremore rimastomi. Lo perdo a poco a poco […]
Penso spesso a quella notte.
In realtà penso così spesso a tante di quelle notti che se iniziassi a parlarne ora, beh, forse non la finiremmo più.
Il problema è che per quanto tempo passi, per quante occasioni ci siano, per quanta acqua sotto i ponti possa passare e rifluire fino a ricoprire l’ultimo dei tuoi lunghi ma deboli capelli, ciò che non conosce fine non la conoscerà quasi mai. È che ho provato a fare in modo che tutto cambiasse. Ho lavorato come non avevo lavorato mai. Ho costruito tutto da capo. E la verità è che ho anche vinto mille battaglie, ho avuto le mie rivalse, la conferma di essere ciò che credevo e che per un attimo, un solo attimo, avevo temuto di aver dimenticato.
Non hai ragione tu, non oggi.
Sono davanti questo specchio e tutto a un tratto nasce un labile sorriso dettato dal pensiero che sì, c’hai provato ma non ci sei riuscita. Eppure sono ancora intrappolato in quella notte. Ti chiederai quale e io ti risponderei “Quale preferisci?”. È che non riesco a rimuovere nulla che appartenga alla forma all’interno della quale sono ancora confinato. È che non sono in grado di allargare le mie braccia e creare anche una minima crepa che possa darmi nuove speranze.
E più passa il tempo più lo spazio vitale viene a mancare. E più passa il tempo più il mio corpo perde padronanza di sé e non può far altro che lasciarsi andare alle tue dimensioni ormai avulse dalle mie.
Lo so quello che stai cercando di dirmi.
Che non siamo quello che cerchiamo. Almeno l’uno nell’altra. Le cose vanno così, l’abbiamo deciso insieme. Chi in maniera più diretta, chi con facile resa e con modi dettati da rabbia e disperazione. Eppure, non posso fare a meno di trovarmi sempre là, immerso nel tuo corpo fatto di colori che ancora non esistono e di materia mai toccata prima da essere vivente fino ad oggi conosciuto.
Avrei voluto incontrarti per un’ultima volta. Sta cambiando tutto troppo in fretta e ora fa un po’ più paura, sai. Non nego una certa eccitazione. Non nego che accettare che tutto cambi fa in modo che possa anche accettare che in realtà non sia mai finita veramente. Da qualche parte scrissi che non siamo mai spacciati per sempre e neanche mai salvi. È questo quello che non hai mai capito. Ovunque tu vada sarà sempre come camminare su una lama a doppio taglio. Potrà crollare tutto all’improvviso, sentirai delle schegge di vetro trafiggere le tue gambe e a quel punto avrai miliardi di costellazioni davanti a te e miliardi di strade a senso unico per l’inferno dalle quali non si torna quasi mai.
Quando tutto è esploso in mille pezzi ho pensato a ciò che pensano quasi tutti. Se solo si riuscisse a capire che, un po’ come le galassie, tutto finisce e ricomincia migliaia e migliaia di altre volte. E allora perché non dovrebbe andare così anche ora? Perché non galleggiare sul senso e sulla forza di tutto questo?
Il problema è che ho paura di dimenticare. Ho paura di non ricordare ogni infinitesimo gesto, ogni minimo particolare, ogni singolo movimento che ha smosso montagne e infuriato il mare.
È naturale si inizi a fare più fatica. È naturale portare dentro cose stupide; eppure non saprei proprio a cosa dare più spazio se non a tutto questo. E ora sono sempre più confuso. Ho tante cose dentro e tutto spinge forte per uscire fuori da questo petto che, ormai ipertrofico, diventa totalmente dipendente dal volere della mia incosciente anima.
Non so se sei ancora tu, se resti soltanto un timido ritratto di ciò che avrei voluto, o semplicemente la versione limpida che da abile censuratore vorrei ricordare.
È per questo che avrei voluto tu fossi qui, anche solo per stanotte. Avrei voluto dirti tante cose. Guardarti mentre porti le dita alla bocca per mangiare ciò che rimane delle tue disastrate unghie, mentre con i tuoi occhi enormi e neri ingoi il mio respiro già spezzato dal momento in cui ti fermi e penso che sei mia.
Chiudo gli occhi e immagino il tuo ventre piatto e i tuoi piccolissimi piedi, le tue labbra inconsapevoli, le tue mani sapienti. Li riapro e in maniera insistente provo nuovamente a domandarti cosa debba ricordare.
Un’immagine rapida e violenta attraversa le meningi da una parte all’altra e un brivido improvviso si scatena per la durata del tragitto. Sei sopra di me e indossiamo entrambi i vestiti. È il principio di tutto, siamo a un’illusoria distanza. C’è una musica (la musica c’è sempre stata e non posso fare a meno di odiarla proprio per questo) bellissima. Siamo l’uno dentro l’altra e non ho più paura di morire.
Poi sono arrivate tante sigarette e quando è cosi non è mai un buon segno. Siamo soli e un’insopportabile realtà prende piano piano forma. Impaurito torno ai tuoi zigomi bagnati e appoggiando la punta del naso su di essi provo a memorizzare ogni tuo odore. Contemporaneamente sposto il capo leggermente per tentare di asciugarli. Alzi gli occhi verso i miei e con immensa tenerezza mi sorridi uccidendomi più volte. Come se fossi nato solo per questa ragione, continuo a muovere il capo perché tu smetta di soffrire. Più ci provo e più la tua pelle continua a bagnarsi senza che riesca a spiegarmelo. Sollevo la testa e il repentino movimento svuota i miei occhi dalle lacrime che fino a quel momento avevo accumulato. Ci guardiamo e sorridiamo come due stupidi. Tornando seri riesci a fermare le tue e asciughi le mie. Quando ormai sei lontana non posso fare a meno che tutto ricominci e rabbiosi e incontrollabili fiumi prendono vita dalle mie palpebre; da cui proprio ora,questo foglio bianco, sta nuovamente strappando l’ultimo unguento che per l’ultima volta c’ha uniti.
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