L’arte è l’unico amante che non si potrà mai possedere.

Ci hanno provato in tanti a domarla; artisti egocentrici che credono di averle dato la vita, mecenati vanagloriosi convinti di conoscere ogni vizio e capriccio della loro amata. Poi ci sono loro, i più illusi di tutti, chi non se ne assicurerà mai la stima, coloro che pretendono di possederla con il “vil danaro”, eppure, i più ossessionati di tutti: i collezionisti.

Il collezionista più saggio sa che la sua è solo una provocazione maliziosa, che l’arte abbocca solo per svuotarlo, raggirarlo e abbandonarlo. Lo lascia brancolare solitario nel buio della sua galleria soltanto dopo poche ore. Quest’uomo di classe alto borghese sa del raggiro, ma non accetterebbe mai un tale affronto. Così, come Dino, protagonista de “la noia” di Moravia, pur di averla alle sue condizioni, è disposto a pagarla ogni volta, riducendo l’arte ad una mera prostituta, riducendo il proprio amore in poco più di una merce.

Poi c’è il più avventato e tormentato dei trafficanti di aste, a cui non basta solo comprarla, possederla, no; lui la vuole conquistare, diventarne l’amante prediletto. Così, come in un film di Visconti, accetterebbe anche di compiere un omicidio pur di averla, diventando solo uno strumento nelle mani di Lei.

Cosa accadrebbe, invece, se il collezionista diventasse lui stesso l’amante indiscreto, il passo falso, il peccato lussurioso della più astratta dominatrice di uomini?

Nell’ inverno 2013, usciva uno dei film più raffinati del panorama italiano degli ultimi anni: la migliore offerta. Giuseppe Tornatore, regista da sempre legato ad uno sguardo intimista e indirettamente autobiografico legato alla realtà di provincia, abbandona in questo film il suo stile, per affacciarsi in un ambiente borghese da sempre ripudiato. Un intreccio amoroso tra  Virgil (Joeffrey Rush) ,un battitore d’aste e collezionista vittima del suo stesso amore ossessivo per i ritratti di donne, e Claire (Sylvia Hoeks) una ragazza agorafobica che si rifiuta di incontrare di persona chiunque, che rappresenta, con estrema umanità e precisione, la figura dell’arte. Ed è proprio questa trasfigurazione che coglie perfettamente l’anima dell’arte.

Virgil, così profondamente segnato dal suo rapporto morboso con la sua collezione di ritratti, ha ormai perso il contatto reale con quello che può essere definito amore, un cerchio di emozioni composto dal dare e l’avere.

Una serie di quadri, per quanto possano suscitare emozioni in lui, non daranno mai nulla in cambio al di fuori della possibilità di essere adulati, nulla più. Ed è forse questo suo abbandonarsi completamente ad essi che ha portato Virgil a conoscere Claire. Lei, che per quasi tutta la sua vita non ha fatto altro che osservare il mondo esterno da celate fenditure nei muri di casa sua, decide di mostrarsi all’unica persona che ha dedicato anima e corpo a lei.

Proviamo un attimo ad uscire dall’ambiente cinematografico, dalla trama del film.

Chi è Virgil? Cosa ha fatto per riuscire a far innamorare colei che doveva semplicemente raggirarlo?

Dedicare una vita intera ad un lato così oscuro dell’amore, rende Virgil un martire, un devoto, una figura così pura e incontaminata da perversioni sentimentali, da riuscire a travalicare l’astratta immagine dell’amata in se. L’arte, dall’altro lato, mette alla prova l’ossessiva devozione di lui nascondendosi, cercando di dimostrare la sua superiorità verso il genere umano, dimenticando la leggenda di prometeo. E, proprio come prometeo sfidò gli dei portando con se una testimonianza della loro umanità, così Virgil, nascondendosi alla vista della sua musa, la “cattura” in un suo momento di pura estetica; miss Claire, ferita ad un piede, riproduce in uno stralcio di umanità la statua intitolata “lo spinario” (I-II secolo A.C.). è forse in questo momento che l’arte si toglie di dosso le vesti astratte per calarsi nella timida figura di una donna reale. Lei sa che lui è li, lei è consapevole che lui l’avrebbe spiata prima o poi, ma non poteva prevedere l’imprevisto così doloroso, così carnale, così umano.

L’effetto domino causato da questo evento volge rapidamente i due protagonisti in un’uragano di emozioni, dove Lei non fa altro che abbandonarsi dolcemente ai vizi, alle lezioni di vita che Lui gli dedica. I ruoli sono invertiti, l’arte è uscita dal suo ciclo, non è più Virgil ad ammirare e comprendere l’arte, ma il contrario.

In questi momenti di scambio, le loro anime si avvolgono voluttuose intorno all’amore che ormai sta preparando inesorabile quell’atto ultimo sconosciuto ad entrambi, che li porterà entrambi sullo stesso piano, chi per totale devozione, chi per naturale impossibilità: l’unione dei corpi.

Unione dei corpi che l’arte ha sempre rappresentato, ha sempre richiamato, ma che non ha mai “toccato” con mano reale. È forse questo celato imbarazzo, o per meglio dire estraneità dell’atto, ad aver fatto innamorare miss Claire di Virgil. Ma, l’amore dato dall’arte, è così oscuro, così passionale, così estraneo ad essa, così ontologicamente pericoloso. Non può esserci lieto fine dove c’è una fiamma così innaturale…

Il film si chiude con un colpo di scena che rappresenta perfettamente la fine predestinata e prevedibile di questa unione tra arte e uomo.

L’arte è fuggita via, con tutte le rappresentazioni di se che per anni avevano reso Virgil schiavo e devoto ad essa.

Il prezzo è stato alto; la pazzia ha catturato il battitore d’aste. Sedotto e abbandonato, senza una testimonianza di ella, il dubbio che non sia mai esistito lo rende folle. Ed è in questo epilogo che esplica l’ambiguità alla base dell’arte, e delle infinite rappresentazioni di essa. Non ci potrà mai essere nessuno che potrà mai domarla, per sempre.

L’arte è l’unico amante che non si potrà mai possedere.