Pioveva. Il terrazzo era bagnato e silenzioso fino a dove ero seduto. Un passo più dietro, la luce calda, dalla cucina, si prendeva qualche centimetro di vita e di rumore.
Dove non arrivano le luci, arrivano gli odori.
Caffè.
Strano. L’ultima volta che avevo controllato lo schermo del cellulare, prima di chiudere gli occhi, l’ora segnata a numeri grossi era 23:30.
L’avevo aspettata dalle 23:24, abituando, nel frattempo, le lenzuola fredde al mio corpo contratto dall’attesa di calore.
Faccio parte di quella schiera di persone che dividono la vita a fette dai margini precisi. Trenta minuti, trenta giorni, trent’anni.
I trent’anni non sono i ventinove.
Qualsiasi sia il modo in cui li vivi, i ventinove anni rappresentano un periodo di attesa. C’è chi aspetta i trenta affrettandosi a convincere il mondo che il tempo sia poco più che una costruzione limitante, che ogni minuto sia uguale a quello precedente, ogni giorno uguale a quello precedente e che la vita stessa non sia altro che un insieme di attimi liberi da qualsiasi vincolo passato o futuro.
Di contro, c’è chi, come me, aspetta l’ora esatta con un’ansia che non è di rassegnazione, ma di fiducia.
Aspettavo la trentesima candelina perché mi costringesse ad imparare qualcosa. Per emergenza.
E l’emergenza non è un modo di vivere, ma l’esigenza di cominciare a vederla, la vita.
Sulla sedia scomoda, a sorprendermi non fu tanto il luogo sconosciuto in cui mi trovavo, che somigliava al letto in cui ricordavo di aver chiuso gli occhi, pochi istanti prima, solo per il fatto che ci stessi senza sforzo.
Quello che proprio non riuscivo a spiegarmi era l’odore del caffè.
Un odore inconfondibile, penetrante, conosciuto, tanto che sembrava dovesse suggerire di svegliarsi per l’abitudine con cui lo si associa al tentativo di tenersi in piedi, più che per il suo effetto reale. La notte non è però il momento giusto per questo sacrificio, pensavo.
E la pioggia aveva un modo tutto suo di abbattersi con esattezza sul terrazzo, che sottolineava l’intenzione di quella notte in particolare di non finire mai.
Fu per questa impressione che l’odore del caffè non riuscì ad alzarmi dalla sedia, né la luce accesa, anche se entrambe le cose indicavano la presenza di qualcuno in casa.
E nemmeno questo mi sorprese, nonostante sapessi con certezza di vivere da solo da tre anni.
Fu così naturale per me accettare di non essere solo quella notte, che mi sembrò di non esserlo da sempre.
Basta un attimo per abituarsi all’idea di chi sei per riuscire a vivere di questa consapevolezza senza devozione fino a quando non ti viene in mente di essere altro.
Tutto quello che avevo pensato di essere, non era che un alternarsi di prese di coscienza senza pentimento scandite da numeri interi.
Avevo catalogato le esperienze sulla base della mia attitudine ad adeguarmi, e me le portavo dietro come souvenir, spacciandole per capacità conquistate.
Come un bambino sulle spalle di suo padre.
Ma per quanti anni si può viaggiare così in alto prima di diventare troppo pesante?
Non più di ventinove. Questa fu la mia risposta. Aspettavo i trent’anni per cominciare a camminare da solo, a piedi nudi, con il pavimento freddo a farmi da promemoria.
Cominciare a camminare per riuscire ad adattare le situazioni al ritmo della mia andatura, al peso dei miei passi, abbandonando l’abitudine di incastrarmi, con una volontà forzata, nelle possibilità d’essere che la vita mi proponeva.
Quella notte, sulla sedia scomoda, a pochi minuti dai miei trent’anni, non avevo ancora cominciato a camminare e mi godevo gli ultimi istanti di accettazione serena delle cose.
Fu solo quando ebbi l’intuizione che la notte stesse cedendo il passo alle prime luci, che mi decisi ad alzarmi.
Un attimo dopo lo slancio di coraggio, non ero più sul terrazzo. Aprii gli occhi nella camera da letto in cui mi ero addormentato e allungai la mano verso il comodino per controllare l’ora sul cellulare: 7:58.
Aspettai per due minuti che fosse l’ora giusta, prima di sospendere la tregua consumata nel conforto delle coperte.
In cucina non c’era nessuno che mi stesse aspettando.
Trent’anni e nessun odore di caffè.
Nessun Commento