Al pari dell’Enea Virgiliano, a cui il nostro progetto guarda da lontano, Enea rivede il padre dopo svariati mesi dalla sua morte. L’eroe epico scende negli Inferi per incontrare il padre e chiedere consiglio, mentre il nostro eroe moderno lo incontra in sogno, che altro non è che un incubo, fatto di ansie e paure, di rimorsi e di rimpianti.
Quando aprii gli occhi per la prima volta non avvertii alcuna differenza. Ero immerso nel buio più totale e non c’era niente che potessi fare. Dopo qualche secondo tutto iniziò a farsi più nitido. Cominciando dal soffitto sopra il mio corpo inerme. La prima cosa che intravidi fu l’enorme crepa che lo spaccava quasi a metà, una ferita da taglio quasi perfetta, una lesione netta e profonda. Un buco nero che sembrava quasi inghiottire la mia anima. Rimasi a fissarlo per un po’ e pensai a tutte le volte in cui m’ero promesso, un giorno o l’altro, di ripararlo. Forse aspettavo solo il momento per infilarmici dentro e sparire una volta per tutte. Forse era solo una stupida e grottesca metafora. Il mio cuore era rotto come quel maledetto muro e aggiustando lui avrei forse aggiustato il mio. Ma io non ero ancora pronto per non soffrire più. Non ero ancora pronto per mentire al riflesso che ogni notte prendeva sonno insieme a me.
Dopo qualche minuto, ogni oggetto nella stanza iniziò a delinearsi ed ero finalmente in grado di riconoscere ogni minimo dettaglio. Quando mi alzai per andare in bagno provai a mantenere un’andatura stabile per l’intero tragitto con vani risultati. Fermai per un attimo i miei passi e chiudendo gli occhi provai a concentrarmi sul minuscolo percorso che m’aspettava e raccolsi tutte le forze a disposizione per arrivare sano e salvo a destinazione. Quando fui vicino la porta, passò qualche secondo prima che riuscissi a trovare l’interruttore. Più la mia mano batteva su quel muro, più il mio cuore aumentava la forza, la frequenza e la velocità dei suoi irregolari battiti.
Una volta accesa la luce, chiusi la porta nonostante in casa fossi assolutamente solo. Alzai il capo verso lo specchio e vidi la mia immagine riflessa. La situazione iniziava a sfuggirmi di mano. Ero più sudato di quanto temessi e in effetti, il fatto che non indossassi più la maglietta avrebbe dovuto lasciarmi già sospettare qualcosa. Osservai una goccia di sudore percorrere le mie pulsanti tempie e mi resi conto di quanto fossi diventato magro come un chiodo. Riuscivo ad avvertire ogni singolo impulso dettato dalla sistole di ogni mio battito. Ogni dilatazione che riguardava la parete delle mie vene. Ogni minimo avvertimento di una piccola e imminente esplosione. Avvicinai il capo allo specchio e il pallore del mio viso risultava sempre più evidente, le palpebre viola e i miei occhi spenti come una stella morente. Li strizzai per sperare in un aspetto migliore ma ottenni solo una percezione più netta delle cose e quindi anche della mia esasperante condizione. Passai la mano tra i capelli e poco dopo ne ritrovai una dozzina nel lavandino. La barba iniziava a darmi prurito. Maledizione.
Inizio a somigliarti ogni giorno di più. Lo penso ogni volta che vedo i miei capelli cadere. Almeno questa potevi evitarmela. Non bastava tutto il resto, no. Anche questo. Eppure sapevi quanto ci tenessi. Io non sono come te. Sai bene che ne soffrirò. Non potrò certo vivere di cappelli per tutta la vita. Dovrò inventarmi qualcosa.
Le labbra iniziarono a farsi viola. Poggiai le mani sul lavandino e piegandomi chinai il capo per cercare una sorta di sollievo.
Succede tutte le volte che passi di qui. Solo che ora inizi a passare sempre più spesso e se prima potevo in qualche modo gestire questa situazione del cazzo, ora diventa tutto più complicato.
Quando rialzai la testa eri dietro di me. Mi domandasti come mi sentissi e una corrente gelida attraversò il mio petto.
Sei un dolore sordo.
Toccandomi la schiena la penetrasti senza fiatare. Avrei voluto poter ansimare ma l’unica cosa che provai fu la totale mancanza di ogni reazione. I miei occhi gonfi erano lì per scoppiare eppure non v’era battito di ciglia che si lasciasse scappare. I dettagli, finalmente tornati lucidi dopo molti minuti, iniziarono a sbiadirsi nuovamente. Solo tu restavi in perfetto contrasto. Ti chiesi se avessi dovuto credere alla tua mano o a quella che poco prima tormentava il mio labile e inquieto sonno. Muovesti le labbra per dire qualcosa ma eri privo di ogni effetto sonoro. Preso dal panico, alzai la voce finché anch’essa non scomparve. Come un edema laringeo mi togli il respiro.
Sei mio padre. Perché mi fai questo?
Rassegnato al mio destino, lasciai che il corso d’acqua raccolto dai miei occhi inondasse le mie scavate guance; abbandonando definitivamente il letto che con estrema forza aveva tentato di tenerle ancorate alle mie coraggiose palpebre. Senza alcun motivo ritornai a respirare e le tue corde vocali a funzionare. Al primo suono che udii, iniziai a singhiozzare.
Sei talmente tu. Talmente vero.
Allungai una mano per toccarti e,come quella di un bambino, affondò tra i tuoi peli neri e duri. Quelli che con tanta fierezza sempre ci mostravi. Appoggiai la fronte sul tuo petto e non potei evitare di bagnarlo in poco tempo. Sorridesti e poggiasti la tua mano sul mio collo. Lo sollevai per guardarti intensamente.
Odori di fumo e legno bagnato. La tua barba è folta e tagliente e non posso fare a meno di ricordare di quando per baciarmi lasciavi segni sulla mia pelle di bambino e la mamma si arrabbiava.
È che ora sono un po’ cresciuto, ma non smetto di pensare che tutt’oggi l’effetto non sarebbe poi tanto cambiato. Avrei voluto stringere le mie braccia attorno alle tue ma evitai di farlo. Non dimentico di essere arrabbiato. D’altronde andasti via senza lasciar detto niente. Così, all’improvviso. Non un saluto, non un messaggio, non un minimo cenno perché potessimo ingenuamente credere di poter essere finalmente pronti. Ti chiesi se avessi pensato a noi, se non avessi pensato di essere uno stupido egoista. Se solo avessi visto la mamma. Se solo avessi visto me. Se solo avessi visto ciò che avevi creato. Un’eterna e ingombrante presenza. Un’ eterna e lancinante assenza. Senza minimamente scomporti mi domandasti dove fosse la mia bici. Guardandoti perplesso per la tua mancanza d’attenzione, m’immersi in un religioso silenzio. Domandasti nuovamente. Ti risposi sottovoce. Mi chiedesti se ricordassi quando sotto un sole torrido e lucente calcavamo terra e strade. Non riuscendo più a parlare, annuì a testa bassa e le lacrime ritornarono a sgorgare. Io ero sempre avanti perché tu mi potessi controllare. Ti chiesi di non tornare. Avevo cose importanti a cui pensare e non più la forza di sopportare. Mi sorridesti senza ascoltare. Quando alzai la voce per darmi un tono, sparisti senza avvisare. Rimasi per qualche secondo a fissare il punto che poco prima avevi occupato. Un conato di vomito raggiunse la mia bocca. Lungo lo scarico scendeva l’ultimo barlume materiale di una notte tutt’altro che tale. Bevvi un sorso d’acqua e tornai alla mia immagine irreale.
Nei miei occhi gli occhi di mio padre. Nel mio cuore la sua assenza. Nella mia mano che trema, la sua che non ho stretto.
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