Napoli è il vaso di Pandora del Sud.

Aprendolo però, non fuoriescono tutti i mali del mondo, ma tutte le storie che da secoli raccoglie e custodisce. E ne custodisce tante, perché tanti scelgono lei come guardiana dei propri eventi.

Tuttavia la città è ventre del mistero.

Molte delle storie che preserva hanno lettura e finale incerti, e sono avvolte da fili esoterici e arcani, fili che i napoletani sono soliti intrecciare su miti e leggende, come quelle su Raimondo di Sangro.

Un uomo troppo moderno per il suo tempo, certo, riconosciuto dal popolino del 700’ europeo come alchimista, letterato, pittore, dalle idee rivoluzionarie, il VII principe di San Severo, duca di Torremaggiore, gentiluomo di corte di sua Maestà Carlo III di Borbone re di Napoli e Sicilia, comandante dell’Ordine Equestre di San Gennaro, ma ricordato solo come uno stregone.

Circa la sua biografia e il suo sangue nobile si possono trovare tante informazioni sul web, ma ciò che davvero importa è l’effetto che ha ancora oggi su Napoli, sulla gente del luogo, sui turisti. Ciò che importa è l’indole esagerata, macabra, poco curante del giudizio dei posteri.

La sua storia non è una storia qualunque.

E’ storia di un diverso, di genio ed ingegno.

Il Cristo Velato fonte: Wikipedia - Liberonapoli

Il Cristo Velato fonte: Wikipedia – Liberonapoli

E’ storia di chi oggi in città sentendolo nominare si fa ancora furtivamente il segno della croce. È storia di chi di notte ode passi e i tintinnii di speroni, del frastuono degli zoccoli dei cavalli della sua carrozza, di chi nella notte di Natale intravede fiammelle e candele dai finestroni della Cappella Sansevero e sente musica sacra provenire da un organo. E’ storia delle vecchiette in via Francesco De Santis che lo chiamano “o’ principe diavolo” o come amava lui “o’ principe haravec” che nel linguaggi degli Inca significava “inventore”. Ma soprattutto è storia di chi indossa un impermeabile e non sa che il primo al mondo è stato inventato da lui con la plastificazione del tessuto nel 1750. Voleva stupire il suo re, Carlo III, proteggerlo dalla pioggia durante le sue battute di caccia. E così, per stupire un re, Napoli fa spazio ad un’altra invenzione che è diventata poi mondiale. Fa diventare contraddittorio anche chi parla di lui; lo si condanna per essere uno dei personaggi più incomprensibili e discutibili dell’Illuminismo, ma gli si riconosce una delle menti più brillanti della sua epoca.

La cappella di San Severo vicino a Piazza San Domenico Maggiore, nel seno della città, è ancora oggi il suo riflesso, il di Sangro fatto in pietra. Trasformata da lui da mausoleo di famiglia a laboratorio, officina dei misteri. E’ di fatto impossibile parlare dell’uno senza parlare dell’altra. Al suo interno, conosciuta da molti, si trova l’opera di Giuseppe Sanmartino “il Cristo velato”.

Ci si chiede ancora come sia stata realizzata, ma quando c’è di mezzo il principe non si hanno mai troppe risposte, nella sua cappella abitano i “perché”. Ciò che sorprende del Di Sangro è che in altre opere il marmo si intreccia con il suo sangue, con il suo vissuto, e ci accoglie un po’ nel suo Io. Alla destra e alla sinistra del Cristo, come due sentinelle si trovano “Il Disinganno” e “La Pudicizia”. La pietra svela l’effimera presenza del padre e l’assenza prematura di una madre. Il “Disinganno” realizzata da Francesco Queirolo ci parla di un uomo, un padre, il suo, che cerca di liberarsi da una rete che raffigura i suoi peccati, e di peccati ne aveva compiuti tanti, come lasciare suo figlio di un anno con il nonno paterno dopo la morte di sua moglie, fuggire, girare il mondo come un avventuriero disordinato e una volta pentito, tornare in vecchiaia alla sua Itaca, la sua Napoli. Nella scultura un angelo avvicina una fiamma al volto del padre simbolo dell’umano intelletto che può aiutarlo a liberarsi dalle passioni mondane rappresentate da un mondo ai piedi del soggetto, seguito da una Bibbia. “La Pudicizia” invece è il ricordo di una madre che in realtà lui non ricorda, perché morta prematuramente. Un ricordo raccontato da altri e da lui interiorizzato, di una donna scolpita da Antonio Corradini con un eleganza innata, spogliata dalla morte come nella nudità che la rappresenta e coperta da un velo che ne raffigura la sapienza.

La Cappella Sansevero nell'Ottoccento

La Cappella Sansevero nell’Ottoccento

Anche il pavimento parla di lui; è un labirinto, simbolo della ricerca della via d’uscita, che ci fa uscire fuori da noi, verso la verità. Anche se attraverso i suoi esperimenti di verità siamo riusciti a tirarne fuori poca. Egli non ci ha fornito spiegazioni, ci ha fornito solo un luogo: la sua cappella, il suo cantiere.

Il principe ha saputo meravigliarci fino alla fine; ha condotto esperimenti della quale ancora oggi non si trovano spiegazioni certe  ma non ha trovato il modo di non far sbiadire il ritratto sulla sua lapide. Anche la sua morte abbraccia il mistero. Tra i vicoli si racconta che sentendo la morte ormai vicina si fece tagliare a pezzi dal suo schiavo e rinchiudere in un baule, per essere tirato fuori nel momento studiato ed esatto per ritornare in vita ed essere immortale. Ma il principe non aveva misurato la curiosità dei parenti che insospettiti aprirono il baule nell’istante sbagliato e il suo corpo scomparve nella notte dopo un urlo straziante. Quel baule assomiglia al patto con il demonio di Oscar Wilde. Come in uno specchio, così come nel quadro che lo rappresenta, il suo volto scompare, invecchia.

In perfetto stile Dorian Gray.

 

Qui c’è il genio: sapeva che non era il suo volto da dover ricordare, ma tutto il resto.

E Napoli accoglie sempre tutto il resto, apprezza la diversità anche se non la comprende fino in fondo.