«A passeggio per Napoli si ha spesso l’impressione di veder camminare dei quadri. Non è solo che certi cambi di luce, o taluni squarci, rimandino a illustratori e vedutisti che hanno reso famosa la città. È che proprio la gente, le donne, i bambini, i vecchi conservano precisi l’aspetto dei loro avi ritratti dal Sammartino o da Luca Giordano».
Questo è un passaggio del romanzo “Neronapoletano” scritto dalla mano sapiente di Antonella Cilento e pubblicato nel 2004.
“Neronapoletano” racconta di Elide Sorano, una giovane donna che lavora ai Beni Culturali di Napoli.
Elide ama leggere, legge sin da bambina: ama soprattutto le fiabe come quelle raccontate da Giambattista Basile, nel suo “Lo cunto de li cunti”. La vita di Elide Sorano è condizionata da frequenti attacchi di panico e da visioni che la inducono a vedere materializzate, nei vicoli di Napoli, figure di quadri e affreschi che prendono vita, come reincarnate nelle persone che incontra per strada. Nelle strade di Napoli, Elide vede il passato ed il presente, realtà e fantasia intrecciarsi. Ed è proprio questa enorme fantasia che si scontra con sensazioni che alimentano in lei la voglia di capire e di scoprire.
Una serie disparata di eventi dissestano la vita di Elide: vede per strada Domenico Serao, un giovane attore che mette in scena adattamenti dai poeti dialettali del Seicento che le sembra di aver già visto; entra in una chiesa che le sembra abbandonata dove vede un quadro e il prete che l’accompagna, mostrandosi evasivo, le dice solo che la chiesa in cui si trovano è la chiesa di Santa Maria dei Medinaceli. Il quadro intravisto nella chiesa era il “Cristo” di Francesco Solimena, reperto prezioso rubato a Maria Attias, sul quale stava lavorando da tempo.
Gli eventi seguenti a questa scoperta si susseguono in una sequenza rocambolesca di avventure che la nostra giovane eroina si trova a vivere tra un attacco di panico e l’altro. Ma sarà proprio grazie a queste disavventure, dal tono magico e misterioso, che Elide conoscerà meglio se stessa e scoprirà quello che lei neppure sa di aver vissuto.
La scrittrice napoletana Antonella Cilento, uno dei fiori all’occhiello dell’odierna letteratura napoletana, ci illumina sul significato e sullo spirito di questo libro in cui la dimensione favolistica si intreccia a pieno con la cultura napoletana, con il suo attaccamento alla storia e alle radici.
INTERVISTA AD ANTONELLA CILENTO, AUTRICE DI “NERONAPOLETANO”
Come mai ha scelto di scrivere una “favola” nello stile di un noir? E quali sono le origini della passione per questo genere letterario?
In realtà Neronapoletano è un falso noir: si tratta piuttosto di qualcosa di più antico, una favola gotica, un incrocio fra suggestioni che vengono da grandi autori che, ringraziando il cielo, sfuggono al genere e anzi, in certi casi, li fondano senza averne le intenzioni, penso a Stevenson, a Gautier che però entrambi sono debitori a un grande e perturbante maestro come Hoffmann. Da Hoffmann vengono molte delle suggestioni che sono in questo e in altri miei libri, mescolate alle letture di Ortese, che mi hanno sempre accompagnato sin da bambina, e senza dimenticare Balzac, specie quello di “Sarrazine”. I romantici più eclettici, da Achim von Arnim ad Adalbert von Chamisso, sono stati letture molto suggestionanti nella mia adolescenza, una premessa necessaria e naturale a Kafka. Ecco, dunque, le origini di “Neronapoletano” e di numerose altre mie storie, che scivolano verso la questione dell’identità: chi sono? Sono qualcosa che viene dal passato? Posso fidarmi di me? Ecco, alcune delle domande che precedono l’invenzione della psicanalisi in letteratura e che perdurano, nonostante la psicanalisi.
Perché ha voluto raccontare di una Napoli intrisa di esoterismo?
Di certo non è una novità: la storia della città è in larga parte esoterica sin dall’antichità e fino ai giorni nostri, passando per personaggi fin troppo narrati come Raimondo Di Sangro o per le teorie rosacrociane qui ambientate da un romanziere vittoriano, non straordinario come scrittore ma certamente informato di esoterismo come molti suoi contemporanei, come Edward Bulwer-Lytton. Tanto che è possibile fare anche parodie di questa Napoli lunare e antichissima come accade nello strepitoso “Nel corpo di Napoli” di Giuseppe Montesano. Insomma, suggestioni letterarie che la città contiene e che basta passeggiare a occhi ben aperti per un po’ per riconoscere. I suoi abitanti sono tutti un po’ esoterici (per non dire esotici…).
È giusto definire “Neronapoletano” un romanzo sulla metempsicosi? Lei crede nella trasmigrazione delle anime dopo la morte?
La reincarnazione è usata qui come spunto letterario, come il mesmerismo in Pirandello, dunque è una buona scusa per raccontare. Personalmente, credo nella letteratura, poi, per il resto, ogni cosa è possibile e gli ambienti sciamanici mi hanno sempre affascinato.
In questo romanzo (e non solo) ci sono sapienti riferimenti all’arte. Si può dire che l’arte sia stata fonte d’ispirazione per il suo romanzo? O c’è stato un fattore primario, rispetto all’arte, che l’ha ispirata?
L’arte visiva, la pittura, la scultura e anche il cinema sono grandi fonti per me che oltre a scrivere ho sempre disegnato. Scrivo immaginando scene che si possono considerare dipinti in movimento e spesso un quadro, un luogo, uniti all’esperienza umana delle relazioni, che è sempre la molla di ogni scrittore, capire cosa c’è nel cuore umano, come diceva Flannery ‘O Connor, resta la molla principale di ogni mia narrazione.
Dal libro si scorge una sua grande cultura. Ha dovuto affrontare un lavoro lungo per poterlo scrivere e reperire tutte queste fonti?
Scrivere senza aver molto letto e molto visto non è possibile (scrivere bene, intendo), dunque, per quanto mi riguarda, le fonti, diciamo così, precedono ogni mia invenzione, dunque non mi metto a tavolino, ci abito già dentro. Salvo in casi specifici: rintraccio una figura minore, un periodo storico poco documentato e allora le letture si moltiplicano naturalmente.
Perché ha scelto, tra le varie sovrapposizioni temporali, di far riferimento proprio al Seicento e Settecento?
Sono due secoli di particolare fascino: è l’inizio della nostra idea di mondo, sono lo specchio del nostro tempo poiché in questi secoli si fondano gran parte delle nostre credenze e contraddizioni, i nostri modelli politici e sociali. Di conseguenza, anche le figure e l’arte di questi secoli ci parlano più da vicino di altre, ci servono da lente focale per capire il nostro presente appiattito dalla miopia in cui abitiamo. Napoli, poi, è al suo splendore apicale: letteratura, pittura, musica non risplenderanno mai più come in questi due secoli. In “Neronapoletano” si parla del passaggio dal viceregno spagnolo a quello austriaco, per altro, un momento critico, dove si verifica una delle tante congiure che la città mette in opera per scaricare i potenti e che diventano spesso rivolte o rivoluzioni ma tutte, allo stesso modo, falliscono. L’attentato al viceré Medinacoeli è uno di questi speciali momenti nel segno dei cicli vichiani. Per paradosso, Vico fu uno dei beneficiati dall’illuminata politica culturale Medinacoeli, mentre la politica economica di questo governante fu veramente cieca.
Leggendo il suo romanzo, si scorge l’amore che lei prova per Napoli, una città in cui però non mancano storie di violenza cittadina. Lei pensa che la rabbia e la diffidenza di cui erano pervasi gli animi dei Napoletani nel periodo storico di cui lei ci ha parlato si sia riversata, quasi come se fosse un qualcosa di biologico e genetico, nei Napoletani di oggi?
Certamente, la città è frutto di infinite dominazioni e di numerose perdite di autonomia e identità che la rendono ciò che oggi è. Non lo dico certo io, la storiografia lo ha sancito innumerevoli volte, tuttavia è sempre riscontrabile il lascito di immobilismo, di mancata responsabilizzazione, di assenza alle decisioni attive e partecipate che in genere la città manifesta come sintomo di una secolare assenza dalle decisioni. Se lo Stato è di volta in volta normanno, angioino, catalano, castigliano, austriaco, francese, piemontese, tedesco, americano, romano, è evidente che si smetta di sentirsi padroni a casa propria e si costruiscano poteri alternativi (le ragioni delle mafie, nel tempo). Una condizione servile, rabbiosa e insieme cortigiana che è molto complessa da sradicare nelle sue radici.
La vita di Elide Sorano sembra svolgersi in maniera abitudinaria, ma dietro a quest’usualità si cela una personalità molto complessa. Quanto c’è di Elide in Antonella?
Dietro ogni personaggio, anche i secondari, anche i minimi e peggiori c’è una piccola parte dell’autore. A Elide ho prestato certe mie paure e certe mie passioni, lo sguardo sui luoghi, per il resto devo dire che mi è lontanissima. Ogni personaggio è un fantasma della nostra esperienza, se ci coincidesse alla lettera fallirebbe.
“Nella Bocca del Vulcano” ringrazia la scrittrice napoletana Antonella Cilento per l’intervista rilasciata, per la disponibilità e la gentilezza mostrata, e sopratutto per accrescere la schiera delle persone che portano in alto questa città e che contribuiscono alla diffusione dello spirito magico di cui noi, NeriNapoletani, ci nutriamo.
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