Quel giorno mi ricordo di aver pensato che dovessi essere una persona dal cuore forte.
Che non è come dire che ti prendi la vita con determinazione, perché tu la rubi senza preavviso.
Hai cominciato a rubare la vita che mi avevi regalato nell’attimo in cui ho usato il tremore dei miei occhi per definire i dolori dei tuoi. Te la sei presa a spicchi, carezza dopo carezza, finché non hai deciso che fosse più facile strapparmela per intero.

Roteavi nel salotto col tuo vestito di taffetà e sembravi felice. Avevo otto anni e ti avevo chiesto di mostrarmelo.
Ti sei seduta a terra e mi hai fatto cenno di sederti accanto.
“Piccola mia, ricorda sempre di non esagerare col pizzo”, mi dicesti, mentre accarezzavi il tuo vestito da sposa e sorridevi per un entusiasmo fuori moda che aveva a che fare con un passato che non conoscevo.
Cominciai ad imitare il tuo gesto per provare a capirti. Le mie dita curiose scivolavano sul tessuto liscio seguendo il percorso segnato dai tuoi pensieri. Chiusi gli occhi mentre mi facevo conquistare da quel solletico, e vidi uomini col frac e donne con gonne svolazzanti, che danzavano al ritmo delle ninnananne che mi cantavi perché mi addormentassi prima che i tuoi incubi cominciassero a prendersi lo spazio sopra il mio letto. La musica si accompagnava alle risate ingombranti dei danzatori e mi ricordo di aver riso con loro, per assecondare la leggerezza che si faceva spazio fra i confini invalicabili che avevi stabilito seminando cemento ovunque.

Probabilmente disturbai la tua memoria, perché mi guardasti smettendo di sorridere e poi tirasti con forza il vestito perché lo lasciassi. Non che ce ne fosse bisogno, non ti ho mai opposto resistenza.
Smettemmo di condividere la felicità che avevamo conquistato entrando in contatto attraverso il vestito.
Eri già in cucina a sistemare, misurando le distanze, stoviglie di cemento su un tavolo di cemento, quando mi avvicinai al vestito che avevi lasciato cadere a due passi da me, e ne tagliai un pezzo, prima che si trasformasse in cemento anche quello.

Quando hai scelto di andare via, mamma, io ho continuato ad accarezzarlo ogni volta che ho avuto bisogno di vincere le distanze a cui mi avevi costretta, e che avevo accettato per proteggermi.
Mi avevi detto che questa tristezza avrebbe vinto, che la depressione è un percorso di onestà che si consuma fra pillole e rinunce.
E non c’è modo di misurare il limite di questa costrizione, nessuno sa quand’è che la vita comincia a trasformarsi in una successione senza respiro di difficoltà alienanti.
E fu la distanza fra il colletto e la manica di quel vestito in taffetà bianco, a suggerirmi che le tue spalle non fossero abbastanza larghe per sopportare il peso delle mancanze, quelle che ti hanno costretta a rinunciare a guardare la vita per come la vedevo io: una danza divertente.
Ecco vedi, di tutte le cose che ricordo, mi resta una sensazione, come di conforto, quando accarezzo quel pezzo di stoffa. Perché so che per un attimo, insieme a me, tu sei stata felice.
Ed è bastato violare la libertà della tua lontananza una volta, perché io ricordassi per sempre uomini col frac e donne con gonne svolazzanti danzare al ritmo delle tue ninnananne.