L’infanzia di Enea è trascorsa in un piccolo paesino della provincia Siciliana. Siamo come cresciamo, all’interno di alcuni limiti insiti alla nostre indole primaria; se si nasce per essere vento non si potrà mai diventare terra. Questi, sono i ricordi di un infanzia polverosa, fatta di sguardi, promesse e illusioni. Questa è l’infanzia di un ragazzo cresciuto in seno all’illusione e le speranze di rivalsa di una madre forse fin troppo presente. Questa, è l’infanzia di Enea.
Non è facile essere qui. Non lo era prima e non lo è tuttora. Sapevo sarebbe stato difficile. Sapevo avrei accusato il colpo e quanto sarebbe stato forte l’impatto. Sapevo ogni cosa. Eppure non sono riuscito a fermarmi. Nessuno è riuscito a farlo. È che sono cambiate così tante cose in così poco tempo che non ho avuto neanche un momento, un attimo, la capacità cognitiva e percettiva per intuire,anche solo per qualche secondo, tutto il casino che stavo combinando. Forse, seppur in via del tutto paradossale, ogni singola decisione ha seguito una sua piccola logica, un suo filo conduttore, una perfetta e lunga linea sottile che, a ogni passo, sembrava spaccarsi sotto i miei grandi, tremanti e deboli piedi.
Non sarebbe potuta andare diversamente. Se avessi perso tempo nel pensare, probabilmente, avrei perso anche l’occasione giusta. Avrei perso il coraggio, il rilascio neurotrasmettitoriale tale da permettermi il salto nel vuoto. Il salto da cui non si torna. È che dentro di me sapevo perfettamente ciò che desideravo. Non potevo rischiare di perdere tutto. Non per questioni razionali. Non stavolta. Ogni cosa era cambiata e, finalmente, lo era su tutta la linea.
Non posso negare di aver paura. Non sono diventato grande tutt’a un tratto, non per come la vedo io. Sono cresciuto, questo è vero. Ma quando ragiono in questi termini non posso fare a meno di pensare alle decine di sfaccettature che si nascondono dietro un progetto di crescita. Venire qui è stato un passo necessario. Lì, dove sono nato, sono diventato ciò che sono. È stato il primo tempo. La prima tappa di un continuo sviluppo. È solo che non potevo andare oltre. Non ne avevo la possibilità, non ne avevo la volontà. Sentivo la terra mancare sotto i piedi e per uno che ha i piedi come i miei, beh, non c’era altra soluzione. Ciò non toglie che per arrivare a tutto questo, al caos che ho scelto, quelle piccole mura siano state tutto ciò di cui avevo bisogno in quel momento. Tutto ciò che potevo arrivare a capire. Ora che sono qui, ora che sono qui con tutto me stesso, non posso fare a meno di notare quanto ciò che m’ha formato ancora non basti. È una questione di affinità elettive. Sento il mio corpo avulso da ciò che mi circonda, nonostante tutto. Nonostante il senso di appartenenza cresca ogni giorno in maniera esponenziale. Trasportarsi qui,tutt’a un tratto, ha solamente confermato quanto non avrei mai potuto raggiungere, lì dov’ero, la completezza a cui ora aspiro. Sono tra due fuochi: quello che bruciando mi porta verso luoghi incantati e sconosciuti e l’altro, comunque mai domo, che mi culla dolcemente verso ricordi mai sbiaditi. Per paura, per tenera innocenza che, seppur latente, ancora fa tremare questa terra. Ancora fa tremare questo aritmico cuore.
Accendo una sigaretta e tra la folla una madre porta in braccio il suo bambino. Con forza e fierezza si fa spazio tra la gente. Inarcando la schiena e allargando i gomiti protegge quel piccolo essere che, incosciente di ogni pericolo, dorme senza badare a niente di ciò che lo circonda. Come trafitto da una lama tagliente, una piccola e rapida scossa mi riporta indietro nel tempo. Sono con mia madre e la tengo per mano. Vestito in maniera elegante e con i capelli pettinati in maniera perfetta, alzo lo sguardo verso mio padre alla mia sinistra e sorrido strizzando gli occhi più che posso. Poi torno a lei e il suo volto stanco e assente mi riporta sulla Terra. La strada è vuota ma la sua mano continua a stringere la mia con inaudita forza per minimizzare la possibilità che io possa scappare via da lei. Avverto un enorme senso di protezione che un po’ mi tranquillizza e un po’ mi spaventa. Incrociamo le altre mamme ma solo lei mantiene una certa fierezza. È alta e magra e a differenza delle altre non ha perso il suo vigore dopo il mio rocambolesco arrivo. Dopo averle salutate mi guarda e con fare rapido afferma quanto io e lei siamo migliori degli altri. Non capendo cosa intenda dire, preferisco annuire senza parlare. Ripete più volte di credere in quello che sono; qualcosa di veramente speciale. Ascoltarla un po’ mi inorgoglisce e un po’ fa di nuovo paura. Quando trovo il coraggio di domandarle il perché, lei risponde sorridendomi e dandomi un bacio. Con una mano mi aggiusta i capelli. Dice che sono bellissimo e che prima o poi lo capirò. Magari prima che imbocchi il viale del tramonto, dice. Mi stringo nelle spalle e un rapido broncio prende il sopravvento sul mio viso. L’idea di perdere mia madre mi innervosisce più che rattristarmi. Lei è mia e per come parla sembra quasi essere una creatura immortale. E se ciò che dice è vero, non posso certo mettere in conto che sarebbe andata via prima o poi. Avrebbe voluto dire mentirmi. E io non sopportavo chi si prendeva gioco di me. Neanche se avesse dovuto trattarsi di mia madre. Con tante domande e poche risposte la mia infanzia ha continuato ad andare avanti senza grosse interruzioni. Ricordo le piccole cose e nessuna di queste corrisponde a qualcosa di eclatante. Solo pochi momenti, quelli intimamente condivisi. Casa mia non offriva grandi possibilità. Eravamo pochi ragazzi e non era certo difficile conoscere gli affari di tutti quanti . Non era facile passare inosservato, soprattutto per chi, come me, non aveva alcuna voglia di fare amicizia con qualcuno. Nonostante le parole di mia madre, a vincere era sempre una certa timidezza dettata, più che da una banale insicurezza, dall’elegante riservatezza che coltivavo e che amavo rispettare tutte le volte che la mia anima la riconosceva negli occhi di qualcun altro. È andata avanti così la mia fanciullezza. Tra silenzio e riflessione. Tra vuoto e vuoto. Con momenti spensierati e abissi mai colmati. È stata lenta la mia infanzia. Lenta la mia crescita forzata. Mi domando spesso se fossi nato qui, se avessi costruito qui. Se, magari, sarebbe stato tutto più veloce,tutto più fluente. È che c’è stato troppo silenzio intorno casa mia. Troppo rumore del vento. Chissà se in questo caos, qui, conoscono il rumore che fa il vento.
Sulla falsa riga di un noioso e predefinito circuito ho continuato. Distratto, sbadato, ho perso qualche sogno e l’entusiasmo e sono cambiato. Non avendo alcun tipo di legame, ho avuto un po’ di tempo per pensare. Ogni giorno, il fossato costruito intorno a me cresceva senza fermarsi. Ero sempre più foriero di pensieri ai più sconosciuti. Quando mi sono trovato davanti l’ennesima decisione, ho fermato ogni cosa intorno a me. Ogni cosa dentro me. Mi sono guardato alle spalle. Una volta, poi due. Poi tante altre ancora. Ho girato il capo prima a destra e poi a sinistra. Ho studiato ogni minimo dettaglio. Abbassati gli occhi, il cuore sembrò correre dritto verso la mia gola. Quando li rialzai, passò qualche secondo perché il bagliore del tramonto desse tregua ai miei stanchi occhi. Come accompagnato da una leggera sinfonia alle mie spalle, ho iniziato a sollevare pensieri felici e sogni mai sognati. Era probabilmente il momento più importante della mia monotona e monocorde vita. Tutto ciò in cui credevo, tutto quello che pensavo sarei diventato, tutto quello che pensavo avrei dovuto obbligatoriamente essere andò in frantumi. Capii finalmente che non ero pronto per tutto questo. Pensai agli occhi di mia madre. Verdi e sensibili come un fiore di carta. Non li avrei mai più visti così belli. Lasciando tutto quello in cui credeva, le avrei tolto il diritto di raccogliere ciò che aveva seminato e cioè un figlio realizzatosi secondo norma in questo porco e sconsacrato mondo. Quello che nessuno avrebbe mai intuito era che un distacco così non implicava obbligatoriamente una rottura netta e profonda. Io non avrei mai lasciato i miei sogni di bambino. Avrei semplicemente percorso altre strade che m’avrebbero portato in altri luoghi per diventare ciò che avrei voluto essere. Diventerò ciò che avevo promesso, ma non è questo il momento. È per questo che sono qui. Per scoprire quanto di ciò che ho lasciato ho realmente perso. E resto qui, con un’altra sigaretta tra le dita a guardare una madre stanca camminare e il suo piccolo bambino strillare. Mentre un giovane ragazzo, tra migliaia di persone, con un groppo in gola, pensa ai soliti problemi e alla solitudine che prova. Solo, senza il coraggio di cambiare. Triste. Provando già la nostalgia di ciò che sa che perderà.
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