Che poi uno pensa che un giorno sia ancora lontano e poi arriva tutto a un tratto.
Che sei ancora a maniche corte in una stazione di notte e tremi pensando a quello che t’aspetta.
Che se fumi non hai da accendere. E se hai da accendere non hai mica da fumare.
Che una città è dolce solo in una foto e quando è fredda non perdona mai.
Che a fianco a te c’è un silenzio che spaventa e seminterrati in festa. Sei scappato pensando che presto t’avrebbero fermato e invece la strada è larga e lunga per uno che corre come te. Perché non c’è quasi mai qualcuno che corra come te. E che non lo sai.
Che ci sono notti che non passano mai e pensieri che dormono ancora lì. Che non c’è viaggio e non c’è vagone in cui non guardi perché siamo tutti storie meravigliose. Che se la musica non basta c’è qualcosa di forte che non va e non puoi fermarti. Che la musica è solo tua e nessuno te la può portare via.
Che hai paura ma in fin dei conti questo poi non significa un granché. Che la paura c’è sempre e la differenza è che ora non basta più. “Scalerò montagne di duemila metri perché qualcuno ha detto che non son capace”.
E allora urli alla nebbia perché se non c’è nessuno a qualcuno dovrai pur urlare. Che alla fine non basta mai.
Che fai qualcosa di buono sì, ma non basta mai. E perché lo fai non ha neanche più importanza. Che un obiettivo non so se c’è e se esistesse lo riconoscerei solo a cose fatte. Che in fin dei conti non si dimostra niente a nessuno perché niente e nessuno che si rispetti dovrebbe mai aspettarsi qualcosa da te. Che se no cade tutto e se cade tutto non ti tocca altro che rialzarti. Uno crede che un giorno sia ancora lontano e pensa che farà cose e ne progetterà di altre. E se le prime vanno bene, le seconde restano sepolte in quella notte da maniche corte. Che se ci credi le vai a prendere di nuovo.
Inizia tutto con un grande rumore.
È un continuo alternarsi di suoni ad alta e bassa frequenza. La pressione sul vestibolare cresce senza misura fino a provocare giramenti di testa improvvisi. Il cocleare sembra stia per scoppiare. Provo a diminuire la distanza tra collo e spalle e stringo gli occhi per provare sollievo. Sembra un palliativo che funziona. Attorno a me, nulla di tutto questo. Giro il capo prima a destra e poi a sinistra per intuire eventuali miglioramenti. Sono circondato da persone d’ogni genere. Ragazzi e ragazze. Famiglie, amanti, vagabondi e clandestini. Nei loro occhi vuoti si alternano tranquillità e spavento.
Una cosa è certa. Aspettiamo tutti si apra questo enorme portellone per uscire dalla gabbia che ci contiene. Siamo stati proiettati dalle nostre comode poltrone a questo immenso stanzone che ci divide dalla tanto agognata libertà. Un rumore secco prende vita. Abbiamo attraccato. Pistoni e rotelle iniziano a girare e una flebile luce inizia il suo percorso verso i nostri volti. Corde volanti si intravedono nell’aria e tutto inizia a farsi più nitido. Quando il processo d’apertura finalmente termina, con passo svelto, ognuno di noi prova a guadagnare l’uscita il prima possibile. Quasi con la paura che la pancia di questa balena possa risucchiarci nuovamente, e senza preavviso.
Una volta fuori allargo le braccia per liberarmi dal senso di costrizione che fino ad allora avevo sopportato. Guadagno un angolo e poso quel poco che ho con me per terra. Tiro fuori il tabacco dalla tasca e chiudo una sigaretta. Frugo un po’ dappertutto ma dell’accendino non c’è traccia. Devo averlo perso tra la folla nei vani tentativi di divincolarmi da essa. Alzo lo sguardo e qualche gradino sopra il molo, un ragazzo fuma con lo sguardo fisso sui pescherecci in lontananza. Mi avvicino e senza bisogno che parli mi tende la mano con l’accendino al suo interno.
– Grazie
– Avevo già capito.
Senza nemmeno rivolgere il suo sguardo verso il mio, prende tempo aspirando avidamente la sigaretta ed espirando indirizza il flusso di fumo verso l’alto. Poi, parla.
– Dovresti vedere la biblioteca. È all’interno di un palazzo molto antico, ma non ricordo mai come si chiama. È come se espiassi qui le mie colpe prima di affrontare una nuova giornata. Anche se sempre uguale alla precedente.
– Non è mai facile capire se abbiamo fatto la scelta giusta. Credo di capire.
– Certe volte me lo chiedo. Altre no. Cosa conta se poi non hai mai il coraggio di cambiare”.
Guardo i pescherecci e penso alle parole improvvise dello sconosciuto. Un uomo infila una mano in un secchio e un polipo le si avvinghia attorno. Decine di persone iniziano ad arrivare fino a circondare quasi completamente ogni imbarcazione. Qualcuno è solo curioso, altri vanno via con qualcosa tra le mani. Penso ai pro e i contro di una vita così. Penso se anche io non abbia sbagliato praticamente tutto. D’altronde una vita passata in mare, su una piccola imbarcazione, lontano da ogni sorta di contatto col mondo terreno e le sue limitazioni, lontano da ogni singola forma di legame, forse non sarebbe stato così male. Sollevo leggermente il capo e il mio sguardo va più lontano. Il mare inizia a essere sempre più simile a un dipinto. Giro la testa verso lo sconoscito che comincia a far ordine delle sue cose per andare via.
– Non so perché tu sia qui, straniero, ma ad ognuno il suo. Spero tu possa trovare ciò che cerchi. E in caso contrario, che tu possa vivere facendolo.
Vorrei dirgli qualcosa ma riesco solo a sorridergli. Credo abbia capito tutto. Mentre va via, mi giro per seguirlo con lo sguardo finché non sparisce dalla mia visuale. Ritorno al mare e un sole gigante inizia a brillare nel suo specchio. Poggio i gomiti sul muretto dinanzi a me e cerco di fotografare con gli occhi ciò che vedo per portarmelo dentro. Inizio ad allontanarmi e uno stormo di gabbiani improvvisamente vola via. Addentrandomi in paese, un piccolo rudere attira la mia curiosità. Mi avvicino e scopro che è una piccola chiesa. Sicuramente molto antica. Al suo fianco c’è una piccola baracca in legno. Dall’ingresso escono 3 bellissimi gatti. A seguirli, un uomo sugli 80 con un modellino di un veliero in mano. Nei pressi dell’ingresso della chiesa c’è una signora molto anziana; sorridendomi, mi parla della storia dell’edificio e con un certo accanimento cerca di convincermi di come prima qui fosse tutto più bello.
– Ora ci sono alberghi e ristoranti. Prima invece c’erano solo pescatori. Era tutto pieno di reti ed eravamo un’unica famiglia. Si stava più uniti. Non come ora.
– Tutto finisce. Non possiamo farci niente.
La signora annuisce e tutto a un tratto la malinconia prende il sopravvento sul suo volto. Mi sento in colpa per quanto detto, ma ora come ora non ho tempo di addossarmi più colpe di quante già non ne abbia. La saluto assicurandomi che stia tranquilla. Vorrei dirle che le cose belle rimangono sempre tutte dentro. Girandomi le spalle torna in chiesa passeggiando molto lentamente. L’uomo e i gatti non ci sono più, il veliero si. Cammino senza meta. Avrei tantissime cose a cui pensare, ma un’alta frazione delle mie energie fisiche e nervose corre velocemente verso un’unica grande meta, sempre la stessa.
Penso a Didone e ai suoi capelli. Li sento sfiorarmi la guancia e non posso fare a meno di toccarli. Il vento s’alza e la sensazione di prurito invece d’aumentare scompare nel nulla. Porto il palmo della mano al volto per fermare l’ultimo tremore rimastomi. Lo perdo a poco a poco. Giro il volto e i miei occhi lucidi cominciano a svuotarsi. Immagino la sua sagoma riempire la mia. Le sue pupille dilatate scavare la mia pelle. Le sue dita bruciare le mie ossa. Abbasso le palpebre per scappare via da tutto questo. Inspiro profondamente ma non posso fare a meno di espirare a scatti. Didone sparisce dalla mia visuale e prepotentemente ritorna il mare. Sono di nuovo solo.
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