Reggio Emilia, vento fresco, una quiete ancestrale che rimanda ai quadri del De Chirico. Sono seduta dinanzi ad un tavolino dal design asettico al di sotto di un porticato, in una delle piazze principali del centro storico cittadino. Di fronte a me siede Viviana Farina, storico dell’arte e donna profondamente sensibile alle trame storico – artistiche del seicento napoletano.
Attraverso il suo approccio analitico nei confronti della scoperta, mi coinvolge nell’universo destrutturante del collezionismo contemporaneo, con fare stimolante e disponibilità infinita, di chi racconta e svela.
Rivela la sua storia, si allontana per pochi minuti da se stessa per raccontarmi il suo tempo. Epoca in cui, ai tempi dell’Università Federico II di Napoli, trova la sua vocazione per la ricerca. Di fatto, ella compie un percorso di studi che la porta in primis al conseguimento del diploma di laurea in lettere moderne con indirizzo storico – artistico, e successivamente verso dottorato di ricerca e post-dottorato in discipline storiche dell’arte.
“Io credo di aver fatto la scelta giusta, ho una vocazione per la ricerca. Ho sempre cercato di trovare oggetti belli ed interessanti che potessero rappresentare uno ‘scoop’ in un certo senso. Non ho mai avuto ripensamenti, ho fatto quello per cui sono portata”, spiega con sicurezza.
Con un numero notevole di pubblicazioni ed attività scientifica all’estero, Viviana Farina torna a Napoli come docente di Fenomenologia delle Arti Contemporanee presso l’Accademia delle Belle Arti, dopo alcuni anni di insegnamento fuori regione. Un salto esperienziale dall’arte antica al mondo delle arti contemporanee che spiega piacevolmente: “Quando fai ricerca, dopo un po’ vai al di la del racconto, inizi a spiegare un tuo punto di vista ed a leggere le cose a modo tuo. Anche in questo caso, non smettendo mai di studiare e scrivere, più amplio lo sguardo e più mi rendo conto di poter parlare in maniera più interessante anche di ciò in cui sono specializzata”.
Un modo per andare oltre, come direbbe Louise Bourgeois “Devi raccontare la tua storia e poi devi dimenticarla. Questo ti rende libero”.
Mentre mi parla, andiamo a ritroso, ripercorriamo una mattinata spesa tra le pareti bianche dell’opera architettonica di Pastorini e Salvarani risalente al 1957, sede storica della società Max Mara, che oggi ospita la Collezione Maramotti, frutto della passione smodata per i molteplici linguaggi artistici da parte di Achille Maramotti.
“Il fiuto di Achille Maramotti è stato eccezionale, lui ha saputo fin da subito quali quadri acquistare e quali no. Il collezionismo ad un certo livello diventa quasi un’ossessione e lo stesso collezionista è una ‘bestia’ rara abbastanza particolare, soprattutto quello che cerca di avere una sua coerenza stilistica”.
A testimonianza effettiva il complesso organico convertito da Andrew Hapgwood nel 2005, dopo lo spostamento della sede aziendale Max Mara, ospita al suo interno una collezione permanente ben studiata che raggruppa opere della prima Arte Informale degli anni ’40 e ’50 ed un gruppo di opere protoconcettuali italiane. A queste succedono opere risalenti alla Pop italiana, all’Arte Povera, alla Transavanguardia ed alla New Geometry americana degli anni ’80 e ’90; vi è inoltre uno spazio del complesso dedicato alle mostre temporanee. La Collezione Maramotti può e deve simboleggiare un contenitore di idee intellettuali fruibili come specchio dell’epoca che vuole testimoniare, come lo stesso Achille avrebbe desiderato.
Diversamente oggi il commercio al di là dell’opera ha assunto un aspetto critico: “Oggi il boom del collezionismo di arte contemporanea è andato a svantaggio dell’arte antica, quest’ultima è stata ritenuta un investimento rischioso, dato anche dal problema dell’attribuzione del nome dell’artista all’opera, nonostante questo rappresenti l’aspetto più affascinante per noi ricercatori. Attualmente purtroppo le speculazioni maggiori si fanno sugli artisti viventi più affermati”.
Viviana Farina mi insegna che oggi tendiamo a fare tante cose un po’ come tendiamo a vivere, c’è forse stato un recupero notevole del senso estetico rispetto agli anni di denuncia sociale della Pop o della Minimal Art, ma probabilmente a discapito di uno spiccato senso rivoluzionario nelle arti che oggi si è convertito in altro.
Ma forse qualcosa persiste, e va al di là di questa sedia sulla quale siamo adagiate, di questo silenzio cittadino e di questa riflessione debole sul mondo: la bellezza, che è insita nell’arte.
“La bellezza salva. Salva sempre. Bisogna guardare un’opera tante volte per coglierne tutti gli aspetti. Penso che l’arte di certe epoche abbia portato e porta una certa valenza etica forte, è come se ci costringesse ad essere migliori, ad allontanare i sentimenti più turpi”.
Un grazie speciale.
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