“Guardami finché non mi addormento.
Guardami sempre, anche quando te ne vai da Napoli. Così so che mi vedi e sto tranquilla”
Questa è l’unica frase che ho sottolineato durante la lettura della tetralogia “L’amica geniale” di Elena Ferrante.
Una sola frase in quattro volumi? Brutto segno. Penserete.
Invece no, se il lettore in questione, che sarei io, è abituato a maneggiare i libri con una cura maniacale e raramente osa scalfire le pagine di un libro con un segno che sia ad esso estraneo.
Eppure non ho resistito e, matita in mano, ho sottolineato fieramente questa frase, con le lacrime agli occhi.
Elena Ferrante è il fenomeno letterario del momento.
Un nome senza volto, una penna di cui non conosciamo la mano. Potrebbe essere un uomo, una donna, un gruppo di scrittori, un’invenzione della casa editrice.
Tradotti in tutto il mondo, i suoi romanzi sono stati elogiati da El Pais, The New Yorker, The New York Times, hanno ammaliato i più grandi scrittori del mondo e rapito lettori di ogni nazionalità, trascinandoli in storie di amori, separazioni, intrecci familiari quasi tutte ambientate a Napoli.
E la Napoli dei suoi romanzi è vera, come fosse tracciata a matita nella sua nudità essenziale, non ostentata. Spesso è una Napoli ricordata, legata all’infanzia, divorata dalla sua stessa bellezza di madre dal ventre pieno di lava che, però, sputa luce e salsedine sui suoi figli.
I personaggi sono anime fastidiose, talmente legati al loro essere imperfetti da far venir voglia di urlare, scuotere, trascinare verso la scelta giusta che, quasi mai, fanno. Così, come noi, sono mutilati dalla ferocia del mondo, accumulano ferite su ferite, si rialzano, a volte non imparano nulla.
Alcuni ritengono le sue storie una mera soap opera, rinfacciandole implicitamente la colpa di aver venduto milioni e milioni di copie. Come se ciò che ha successo sia destinato automaticamente ad essere qualcosa di qualitativamente povero ed estremamente popolare, un accostamento semplicistico e banale.
Ma un quesito sembra attirare la curiosità di tutti più di ogni valutazione qualitativa delle sue opere: chi è Elena Ferrante?
Nomi e nomi sono stati fatti.
Poche settimane fa, lo studioso dantesco Marco Santagata, dopo aver analizzato minuziosamente la famosa tetralogia della scrittrice, ha ritenuto che la sua scrittura ha a che fare più con il ricordo che con l’invenzione e che, dunque, molti elementi dei suoi romanzi possono essere assunti come autobiografici. Sulle pagine del Corriere della Sera, si ritiene certo di aver individuato l’identità di Elena Ferrante, ossia Marcella Marmo, docente di storia contemporanea all’università di Napoli Federico II, la quale ha prontamente smentito.
E allora si è riaperta la caccia.
Nel mirino i più grandi esponenti della cultura partenopea.
Eppure l’intenzione, espressamente manifestata, dell’autrice è palese nelle poche interviste da lei rilasciata: la sua identità non deve essere rivelata.
Dunque perché questo accanimento, questo inseguire con l’acqua alla gola un nome solo per l’esigenza di soddisfare un nostro capriccio?
Certo, la biografia di un autore è spesso fondamentale per apprezzare a pieno e comprendere le sue opere. Tuttavia l’incertezza, il dubbio non sottraggono nulla al valore del romanzo e, soprattutto se espressamente richiesto, l’anonimato è una prerogativa che va accettata e rispettata.
Anche io mi sono spesso chiesto chi sia Elena Ferrante.
L’interrogativo mi torna alla mente ogni volta che passo in via Mezzocannone, a piazza dei Martiri o in ogni altro luogo che è stato descritto con tanta vita nei suoi libri. Non posso fare a meno di associare il suo nome all’uno o all’altro volto, di pensare se per caso l’ho incontrata per strada, se magari ho sostenuto con lei un esame all’università.
Nonostante la mia curiosità, l’istinto di sapere, scoprire, faccio però una cosa e ogni volta che ho voglia di sapere chi è Elena Ferrante mi limito ad aprire un suo libro, a immergermi nelle parole dette con una voce che non conosco, ma ancora più forte perché scandita da una cadenza che immagino e conosco solo io.
E quindi grazie, Elena Ferrante. Grazie perché in un mondo dove l’apparenza, la vanità, l’immagine fanno da sfondo invasivo e a volte prevalente su ogni altra cosa, tu hai preferito la riservatezza e il potere della parola.
Grazie per aver fatto quello che Mina ha fatto nella musica, e di averlo fatto sin dall’inizio.
Grazie di far parlare solo te stessa e liberarci dalla tua immagine che ci avrebbe tamponato le ferite dei tuoi racconti con un imponente ostacolo all’immaginazione.
Grazie per la tua scelta legittima. Per averci ricordato quello che già sappiamo, ma che evitiamo con vergogna di mettere in atto: il banale, quanto vero, prevalere dell’essere sull’apparire.
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