Perché andare in un museo? Cosa spinge il fruitore di tutti i tempi fino ad arrivare al visitatore dei giorni nostri? Risale al 2000 uno studio sui visitatori del trentino condotto da un team di psicologi, sociologi e storici della scienza che ha intervistato circa 2400 persone tra i visitatori di tre collezioni permanenti (il Museo civico di Scienze Naturali di Rovereto, il Castello del Buonconsiglio, il Museo degli Usi e Costumi di San Michele all’Adige) e di tre mostre temporanee (“Il diluvio universale” presso il Museo Tridentino di Scienze Naturali, la mostra dedicata a Segantini presso il Mart a Palazzo delle Albere, la mostra sui diari “Parole che escono dall’ombra” a Palazzo Trentini). Le interviste sono state condotte prima e dopo la visita e telefonicamente a distanza di alcuni mesi da essa.
Son passati un po’ di anni da questo studio, la società è diventata sempre più frenetica, “sociale” e “connessa”, ma è verosimile credere che persistano le motivazioni di fondo di chi in prima istanza pensa di avvicinarsi ad un museo. Per quasi tutti, infatti, le motivazioni sottostanti alla visita sono da ricondurre principalmente alla volontà di “imparare qualcosa” e al desiderio di “vedere cose belle”: in altre parole, la visita al museo si conferma come una modalità di impiego del tempo libero.
Premesso che lo studio abbraccia in termini geografici solo una fetta di visitatori e di realtà e tipologie museali e senza nulla voler contestare o entrare nel merito dell’approccio metodologico e dei suoi risultati, sul suolo partenopeo, nel Quartiere Avvocata, ai margini del Cavone, a ridosso di Piazza Dante, in un complesso immobiliare del primo Novecento di una ex Centrale elettrica a carbone del Teatro Bellini nasce, vive e si sviluppa un museo di arte contemporanea la cui visita – se non fosse solo per il fatto di essere stato concepito, fin dal suo nascere, come archivio/laboratorio per le arti contemporanee, oltre che museo – diventa, inevitabilmente, nella percezione di chi si aggira entro il perimetro delle sue sale, tra lucida e al contempo irrazionale presa di coscienza, qualcosa di più di una lieve parentesi dalle fatiche e dal frastuono quotidiano, bensì un excursus conoscitivo che coinvolge la sfera intimamente psicologica insieme a quella percettivamente sensoriale, fissandosi così nella memoria storica e personale di ognuno. Cosa succederebbe, infatti, nell’anelito alla partecipazione emotiva del fruitore se, entrando in un museo, dovesse venire a contatto con la vista di qualcosa che è ben distante dal canone comunemente riconosciuto di bella visione o, ancor di più, con immagini cruente di sangue visibile in tutta la corposità della sua materia? Il confine tra rifiuto e disgusto e la tensione e l’aspirazione a un approfondimento e a una comprensione che valichi i limiti della pura visione sensoriale, in sé raccapricciante, può essere molto labile. Ancor più se si tratta di confrontarsi con l’arte di uno degli artisti contemporanei più noti e controversi di sempre, processato varie volte e condannato a tre pene detentive per la sua pratica artistica che ha fatto gridare allo scandalo e che si concretizza nell’atto di squartare animali provenienti dal macello, nelle cui viscere l’attore in azione fruga in maniera concitata e spasmodica in un rito di esaltazione orgiastica di chiara matrice dionisiaca. Stiamo parlando di Hermann Nitsch e del suo museo nato nel 2008 in seno alla Fondazione Morra quale espressione della felice collaborazione tra l’artista austriaco e quello che si può definire il suo mecenate, nonché gallerista e collezionista napoletano, Giuseppe Morra. Il museo, benché aperto anche all’approfondimento e alla documentazione di altre esperienze artistiche, nasce come uno spazio dedicato allo studio e alla conoscenza dell’artista austriaco, classe 1938, considerato uno dei massimi esponenti dell’Azionismo Viennese, il movimento che intorno agli anni Sessanta rappresenta (con Günther Brus, Otto Mühl e Rudolf Schwarkogler) la massima tensione espressiva della Body Art europea. Nitsch è l’unico artista vivente cui sono stati già dedicati due musei monografici: nel maggio 2007 la città di Mistelbach, a nord di Vienna nella zona vitivinicola dell’Austria in cui l’artista vive e lavora, aveva infatti già inaugurato l’Hermann Nitsch Museum.
Dell’attuale allestimento del museo napoletano, che ha una programmazione biennale e che vede in scena fino al 28 Febbraio 2016 “Azionismo pittorico – eccesso e sensualità”, mostra a cura del critico d’arte tedesco Michael Karrer, colpisce l’armonica, esaustiva e stimolante sintesi del lavoro di Nitsch in cui il gesto pittorico è parte integrante della poetica delle sue celebri azioni teatrali. Ottanta le opere provenienti dal Nitsch Museum di Mistelbach: grandi tele, foto e video delle azioni pittoriche, frutto dello scambio che vede le opere del museo napoletano protagoniste della mostra “Arena. Opera dall’opera”, a cura di Giuseppe Morra, negli spazi del museo austriaco sino al 29 marzo 2016.
Pur nascendo come pittore, alla fine degli anni cinquanta Nitsch elabora l’Orgien Mysterien Theater, il primo progetto di un Teatro delle orge e dei misteri (opera d’arte totale che ne comprende tutta la filosofia e la pratica artistica), decidendo così di affidare alla dimensione del dramma una visione dell’arte che aspira a farsi momento totalizzante dell’esperienza umana. Il progetto iniziale del Teatro delle orge e dei misteri è pensato come un grande evento cerimoniale che condensi in sé i miti, i modelli rituali, i simboli archetipici che sono a fondamento della cultura europeo-mediterranea. «Tentai di scrivere un dramma capace di rappresentare l’intera storia dell’umanità (la storia della creazione)», spiega Nitsch. Del resto l’artista austriaco dichiara proprio di assumere il teatro quale origine della sua speculazione, risentendo della tragedia greca dove l’azione rappresentata s’insinua nel patrimonio conoscitivo dello spettatore per la sua valenza di identificazione collettiva attraverso le pratiche di mìmesis (imitazione) e di kàtharsis (purificazione), secondo la teorizzazione aristotelica. Ma in Nitsch, che precisa: <<nel mio Teatro non c’è finzione, tutto avviene realmente, accade>>, la catarsi si realizza attraverso il contatto diretto con elementi che suscitano orrore: il sangue che schizza dal ventre degli animali è vivo, reale; risultano coinvolti, così, non solo vista e udito ma anche il tatto degli attori e, indirettamente, la memoria dei sensi dello spettatore, nel vedere compiere un’azione così intensa e perturbante, è raggiunta nella sua natura tattile pure se materialmente non sta toccando nulla.
L’allestimento del museo, realizzato da Teresa Carnevale, restituisce l’idea di opere che sembrano da sempre parte integrante e corredo della struttura che già di per sé, con ampie vetrate attraverso cui irrompe una cartolina di Napoli col suo Vesuvio e i suoi tetti – che rasserena e insieme scuote -, è un’opera d’arte. Camminando tra le opere non lasciano indifferenti i video delle performance dell’artista: animali squartati, corpi umani crocifissi e imbrattati di sangue, processioni di adepti. In realtà, secondo l’austriaco, non c’è nulla di macabro negli obiettivi del suo lavoro. Fin dalla fine degli anni ’50 il progetto di Nitsch è infatti molto ambizioso: liberare anima e corpo dalle frustrazioni attraverso riti catartici collettivi. E’ tutto votato alla purificazione e liberazione da tabù religiosi, moralistici e sessuali attraverso il contatto con gli istinti ancestrali, primordiali e oscuri di sé. La sua arte si sostanzia così della psicanalisi di Freud e di Jung e Napoli, la città esoterica dove sacro e profano si incontrano in un binomio sempre vivo, in un’azione del 2010 (nel lontano ’74 Nitsch aveva tenuto un’azione in via Calabritto dove sorgeva lo studio Morra e che durò solo tre ore per l’intervento della polizia che la sospese per vilipendio), tenutasi in prima battuta sul bellissimo terrazzo panoramico del museo per proseguire, poi, lungo Corso Vittorio Emanuele fino a Vigna S. Martino, diventa il palcoscenico ideale del suo teatro, in occasione della festa della Pentecoste. Si tratta di vere e proprie forme teatrali con performers preparati che seguono il maestro che li conduce a quella pulsione di morte attraverso cui si può arrivare alla liberazione fino a rinascere a nuova vita. Su barelle e portantine, come omaggio a Napoli e alla sua tradizione, pesce, pomodori, frutta a cui fanno da rimando i corpi nudi e distesi degli attori. Attraverso la mescolanza di elementi naturali con organi interni l’uomo è indotto a livellarsi con la natura, passaggio che lo mette in contatto con i suoi poli sensoriali. Un maiale realmente squartato, l’accompagnamento musicale di un’orchestra: tutto si imprime, attraverso una teatralizzazione “reale”, nella percezione dello spettatore. Nitsch, artista eclettico, è anche autore di sinfonie (celebre la sua sinfonia Punta Campanella) che affida al maestro Andrea Cusumano. A questo teatro fanno da contraltare le tele scure che il maestro dedica alla moglie morta in un incidente stradale, le sue malaktion – le azioni pittoriche – che, arrivando sulle volte della sala, diventano narrazione ossessiva in una sorta di “cattedrale del colore”. <<La mia pittura è la grammatica visiva delle mie azioni su una superficie d’immagine>>, dice l’artista. E il buio delle tele parallele e perpendicolari contrasta, in uno stacco netto ma continuo, con la tela rossa “relitto” dell’azione pittorica di Nitsch in occasione della giornata del contemporaneo a Rovereto. Con il rosso acceso ritorna il riferimento al sangue, alla sua valenza simbolica, mistica e rituale e non è un caso che l’arte di Nitsch abbia trovato humus fertile nella città di San Gennaro, in cui il sangue e il fenomeno della sua liquefazione rimandano al miracolo oltre che al rito. Tutto concorre, così, a sottolineare la ritualità dell’azione, di cui diventa segno tangibile nella “stanza della resurrezione” il gong suonato da Nitsch per dare avvio alla celebre azione riprodotta sullo schermo. Dall’osservazione delle tele scure della stanza precedente ci si ritrova poi colti, non senza osservare la commistione tra i paramenti sacri e le tele che popolano gli ambienti, dal bagliore emanato dalle tele gialle, omaggio alla città del sole, segno della liberazione e della resurrezione a nuova vita. La figura di un Nitsch sacerdote non abbandona il visitatore laddove il camice del pittore da lui indossato nell’officiare il rito, che pur riecheggia il camice di Klimt, assume una valenza significativa divenendo un tutt’uno con l’opera d’arte e quando lo si ritrova esposto insieme alle tele gialle e quando lo si osserva insudiciato e cosparso di sangue durante l’azione. In virtù dell’elemento sacrale, in teche di vetro si trovano strumenti chirurgici, fazzoletti di carta, garze e cotone a uso medico, zollette di zucchero che stanno nuovamente ad indicare l’elemento della purificazione.
Entrare nella complessità dell’arte di Nitsch non è cosa facile, se non fosse per il solo fatto che la visita al suo museo diventa un’esperienza, che può destare turbamento sì ma anche, forse proprio in virtù di questo, una sete di conoscenza e approfondimento, passando per una reminiscenza soggettiva del proprio io. Si aggiunga poi il fatto che l’artista è oggetto di polemiche a più riprese per il suo modo di fare arte. Infatti, proprio notizia dell’ultima ora, è stata lanciata da Palermo una petizione online da parte degli animalisti che ha lo scopo di annullare la mostra “Hermann Nitsch- Das Orgien Mysterien Theater” in programma il prossimo 10 luglio a Palermo ai Cantieri Culturali alla Zisa, nel monumentale hangar chiamato Zac. Al di là di come andrà a finire il tentativo di censura l’artista, come ci informano direttamente dal museo, passerà da Napoli il prossimo 29 giugno, alloggiando nel suo appartamento che tra un’opera e l’altra lo accoglie ogni qualvolta è in Italia. E allora, perché andare al museo e proprio al museo Nitsch? A voi la risposta.
Nessun Commento