Siamo nel centro di Napoli, a piazza Cavour per l’esattezza.
Anzi, più che il centro, potremmo parlare del “ventre” della città, prendendo spunto dal celebre romanzo della Serao.
Perché il Museo del Sottosuolo è una discesa di venticinque metri fino a uno spazio tanto umido quanto suggestivo, dove personaggi, sogni, incubi prendono vita grazie ai numerosi eventi culturali, mostre e performance teatrali organizzati.
In questo luogo che, circa 60 anni fa, fu uno dei rifugi più utilizzati per trarsi in salvo dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, si respira un’aria ruvida. Il respiro viene fuori a dense folate di fumo e i suoni hanno una traccia di eco che ti si attacca al timpano un po’ più del dovuto.
E’ qui che, il 5 giugno, noi di NBDV ci siamo chiesti quale sia il prezzo del troppo amore, affascinati dallo spettacolo “Il Dio Cesare”, rivisitazione del “Caligola” di Albert Camus.
Si ricercano gli estremi ne “Il Dio Cesare”, il punto esatto in cui l’ossessione per l’amore si trasforma in altro.
Non in abnegazione e pianto, ma sfrenatezza, tormento dionisiaco, un’iperattività dettata dalla sterilità dei rapporti umani.
Allora l’irrazionale fa tappa nel dolore, nel sesso, nell’immaginazione, nella morte.
Perché Caligola, trasfigurato dalla morte della sorella/amante Drusilla, cerca una libertà che non può avere e la dona agli altri, privandoli di ogni altro pensiero se non la paura della morte. Solo così li rende liberi e un po’ li invidia: lui, che libero non può essere, perché non può liberarsi di quello che lo circonda e quello che ha dentro.
“Non siamo mai pienamente soli: sentiamo il peso del nostro passato e del nostro futuro”.
Ed è questa invidia che lo porterà ad accettare, quasi stoico, un esito già scritto.
Una regia folle e incisiva, curata da Ivano Bruner e Maria Claudia Pesapane.
Interpretazioni di Ivano Bruner, Chiara di Bernardo, Darioush Forooghi, Giovanna Landolfi, Luigi Palmisano, Maria Claudia Pesatane e Raul Quagliata.
Ce ne andiamo salendo le scale che, una ad una, ci portano via dal “ventre”. Ironico che, proprio in un luogo in cui il richiamo all’origine è tanto forte, le domande che ci siamo posti siano forse il prototipo di tutti i ragionamenti filosofici più moderni.
Qual è il prezzo del troppo amare?
Ce lo siamo chiesti all’inizio, ce lo chiediamo ancora.
Gli attori non ci hanno dato una risposta.
Non ci ha risposto il regista.
Non ci ha risposto l’autore.
Andiamo via con una domanda. E andar via con una domanda è più utile di andar via con una retorica risposta. Significa che qualcosa è rimasto e non c’è stata la pretesa di andare oltre e illuderci.
Sappiamo ben illuderci da soli con le nostre risposte.
Al teatro lasciamo la dote di darci un sogno più reale della vita.
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