Il 2015,
si è presentato con milioni di matite nei profili virtuali e sui giornali, l’affermazione del diritto della libertà di espressione dopo i fatti di Charlie Hebdo; si è congedato con le armi, i caccia e le bombe, uomini in divisa e discorsi militari in ogni frammento di informazione.
Le guerre non sono una novità, è che oggi sembrano riguardarci di più, almeno per un mese intero è parso così.
Interessante e rapido è il cambiamento dell’orientamento dell’opinione pubblica in relazione a ciò che accade, per i molti che ormai lo avvertono “controllato”, e per quelli che si fidano di quanto leggono sui giornali/vedono alla tv/ascoltano alla radio.
Avevamo le matite, volevamo reagire e ribadire la nostra identità, sostenere i principi che la fondano… la libertà.
Quella libertà che i recenti fatti hanno messo sotto i riflettori, rivelandola per quello che è: solo una condizione mentale, un modo di interpretare la quotidianità, sentirsi sicuri.
Così ci siamo ritrovati dopo meno di un anno dall’altro lato della strada, ad avere paura di quello che è diverso da noi, una condizione di arrivo diametralmente opposta a quella che le matite nei profili volevano rivendicare. La tendenza emersa dalle ultime tornate elettorali, nella nostra Europa democratica e mista, ha spiazzato tutti per un momento. Non è una questione di qualità delle idee politiche, solo un dato abbastanza chiaro di quanto sia sottile il confine tra solidarietà e paura, e quanto la prima sia propedeutica a placare la seconda.
È difficile scrivere un post di fine anno che sia di speranza, di adrenalina per quello che verrà, alludendo alla possibilità che lo scoccare della mezzanotte faccia tabula rasa delle questioni diplomatiche o delle nostre dinamiche personali. È un riflesso illusorio che è pericoloso e deresponsabilizza, affida a un simbolico momento il compito di risolvere alcune cose che fondamentalmente dipendono da noi e basta, e che potremmo cambiare in quello stesso momento semplicemente attivandoci. Solo che sembriamo un po’ assopiti, scarichi, lontani da quella brillantezza che ha caratterizzato le masse in alcuni momenti storici, rendendole protagoniste della stessa storia. Perché, più di ogni altro anno, questo 2015 ci ha allontanato dalle idee: ci ha insegnato che possiamo essere chi vogliamo in qualsiasi momento, tutti… eccetto noi stessi.
Sappiamo che oggi basta un hashtag per esprimere un ragionamento che caratterizzi l’immagine che vogliamo dare di noi, e per prendere automaticamente parte di uno schieramento, una collettività, che ti fa sentire integrato e “accettato”. E allora so che posso essere Charlie, sì, ma anche la Grecia e i morti sulle coste della Sicilia, Valentino Rossi o la Siria, non producendo però nulla di reale per queste cause, sminuendone così anche la drammaticità… in quest’ottica, sopra ogni cosa, “sono Giapponese”.
Sono quel Giapponese spiazzato e incredulo nel duomo di Napoli con la maglia di Cavani da tutti deriso. Quello che in preda al panico, senza sapere cosa dire, ha fatto il giro d’Italia con due parole che lo giustificavano.
È un po’ quello che facciamo noi, mettiamo le mani avanti perché non sappiamo cosa vogliamo dire, come reagire all’orrore di certe notizie, e cerchiamo così di integrarci in un flusso di consensi che ci sembra già consolidato. Non da qualche ragionamento, ma dal fatto che migliaia di persone in quel momento stanno scrivendo la stessa cosa.
Questo ci separa tremendamente dalle difficoltà, dalla percezione della loro gravità, soprattutto dalla possibilità di risolverle.
Si sta concludendo un altro anno, con problemi sempre vecchi, le cui condizioni peggiorano, e che lo scoccare di nessuna mezzanotte ha fatto sparire negli ultimi cinquant’anni: il Medio Oriente e la storia infinita del petrolio; l’inquinamento del pianeta (le polveri sottili a Milano? andate a dare un’occhiata a cosa è successo nell’Atlantico, sulle coste del Brasile); le economie occidentali che mostrano tutti i loro limiti continuando a succhiare ogni risorsa da chi nel mondo ancora glielo concede…
Non voleva essere un post drammatico e di sconforto, è che è già ambizioso pensare che tutte queste cose potranno risolversi con l’impegno da parte degli interessati, figuriamoci abituandoci all’idea che il nostro contributo possa essere unicamente quello di digitare uno slogan di fianco a un cancelletto. Se proprio vogliamo sperare che la fine dell’anno cambi qualcosa, speriamo ci dia quel tanto di sicurezza in più per renderci conto che l’esito di quello che accade dipende soprattutto da noi; che siamo quello che facciamo e quello che scegliamo, dopo averci pensato da soli, anche senza il sostegno dei mille retweet.
Nessuno di noi salverà il mondo, non da solo, ma è senza ombra di dubbio più intelligente – e quindi indicato per la nostra specie – farsi un’idea propria su qualsiasi cosa, scegliere la propria posizione e quindi come comportarsi; anziché scriverlo, vantandosene – che pure è un tratto distintivo dell’essere umano – e aspettare sul divano di casa la fine del mondo col sorriso.
Significherebbe sconfessare Darwin e centinaia di anni di dogmi sulla selezione naturale. E Darwin sicuro era più intelligente di noi, fatemi il piacere… se avesse avuto facebook l’avremmo abbuffato di like.
Buon anno di ragionamenti e scelte
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