Non mi piace l’inverno, non fa per me.

Innervosirsi per la finestra del bagno aperta di primo mattino, le luci accese già dalle tre del pomeriggio, il divano la sera, il vecchio plaid di una vita, il nuovo telefilm a cui affezionarsi.

Anche se da Lost in poi affezionarsi è diventato abbastanza impegnativo: quelli delle serie tivvù hanno capito che il gradimento dello show sale quanti più i personaggi principali muoiono; addio, così ,ai protagonisti vecchio stampo, amici da centocinquanta puntate minimo, caldi rifugi nelle serate di “piove, ma chi me lo fa fare”… due alla Ross e Rachel, ad esempio. Loro era impossibile che morissero, neanche un raffreddore in dieci stagioni. Al massimo si lasciavano, ma sapevi che tornavano insieme. E anche se si lasciavano definitivamente, trovavano qualcuno di altrettanto adatto per le loro vite.

In fondo erano belli gli anni novanta.

Una palla micidiale, ma belli.

Avevano un filtro di pudore su tutto, che in effetti influenzava i toni e gli argomenti, facendo risultare il mondo di una banalità sconcertante (specialmente a riconsiderarlo oggi), anche se questo permetteva  di arginare la deriva trash che nel periodo successivo ha preso il sopravvento, grazie soprattutto alla televisione che in una prima fase l’ha imposta, e ad internet che successivamente ha dato modo a chiunque di esserne parte attiva.

Proprio come nello schemino dei sommi pensatori di serie tivvù, anche qui c’è un comandamento basilare: risulti più popolare quanto maggiore disprezzo manifesti per le cose che hai attorno.

Non è fondamentale il topic, ogni notizia diventa la possibilità di fare una sfilata. Basta essere contro. Ma soprattutto “forti”. Ora non stiamo qui ad indagare sul senso di questa dinamica acchiappa-consensi, che miete vittime e trova seguaci con grande facilità, anche perché porterebbe a discutere di evoluzione della psicologia di massa, in relazione al caos creato da televisione e social network… discorsi che meriterebbero maggiore attenzione delle venti righe che mi restano. Valutiamone gli effetti. L’intervista ai Tg nazionali con la pistola impugnata per sostenere la legittima difesa (?); le foto dei cadaveri dei migranti sulle sponde di mezzo Mediterraneo; la solidarietà alle stragi manifestata spesso in modo più che ambiguo (basta che sia d’impatto, appunto).

La sensazione è che i contenuti siano passati in secondo piano, lasciando tutto lo spazio al modo in cui questi vengono proposti: abbiamo bisogno di dire le cose in modo forte perché l’impatto della provocazione è ormai considerato valore dell’idea da esprimere, la sua qualità. Non più l’idea in sé, con i suoi argomenti che la rafforzano, ma la forma che le dai per attestarla. È quanto mai chiaro, contemporaneamente, che questo è un giochetto alla portata di grandi comunicatori che fanno di questo il proprio lavoro, il resto dei tentativi confluisce nella solita sfilata di brutti contenuti, nascosti e imbellettati da pessimi modi di esprimerli. Pessimi, ma forti.

La provocazione supera facilmente la soglia del buongusto, ignorando totalmente gli standard di sensibilità della platea, che ormai si prepara a leggere e vedere qualsiasi cosa, saltando automaticamente il momento di analisi dell’argomento.

In questo accenno di ora solare ha attirato la mia attenzione la diatriba tra erbivori e carnivori. Da un certo punto in poi l’ho trovata macabra. Anche qui, una notizia qualunque, una cosa peraltro già nota da tempo, l’OMS che fa rientrare le carni trattate tra le cause principali di cancro, ha fomentato gli intellettuali di tutto il globo. L’impressione è che nei meno convinti dei propri mezzi questa strategia dell’impatto sia più una sorta di difesa. “Voglio morire giovane, ma mangiando tutte le mucche del mondo. Tutto il lardo di colonnata che avanzerà nelle vostre tavole portatelo qui. Da domani l’OMS dirà che anche fare sesso fa venire il cancro, non scopate più?”. Ignorando tutta una serie di valori umani basilari, tipo il rispetto per quelli che non mangeranno mai del prosciutto perché morti di fame davvero, per quelli che di cancro ci muoiono, per gli animali sottomessi, per l’ambiente stuprato.

Ho visto sostituire le bellissime foto profilo di quest’estate al mare, con rotoli di pancetta (ve l’ho detto, odio l’inverno) inneggianti all’orgoglio carnivoro, come se io da buon fumatore inneggiassi alla marlboro con hashtag e foto; potrei scrivere #iostoconlasigaretta – “bravo, banana” mi direi.

Lo direste tutti.

E va bene considerare un certo tipo di alimentazione “un’esigenza”, ma addirittura arrivare a manifestare compiacimento, attraverso il fantomatico orgoglio carnivoro, per qualcosa che è il risultato di un processo inopinabilmente brutto e davvero poco dignitoso per l’animale, è assodare una superiorità della specie umana che potremmo risparmiarci tranquillamente.

Lo si fa per scherzare, mi diranno. Ovvio. Se non ti riguarda è facile scherzarne. Il discorso sta sempre lì, è che oggi esiste una soglia di “ciò che è opportuno” molto bassa, ai suoi confini c’è il macabro, che però viene esorcizzato con gli alibi della “provocazione” e della “reazione”. E allora #iostoconlapancetta. Non importano i discorsi etici o di salute, sui quali potrei avere anche cose valide da dire se mi informassi un minimo, #iostoconlapancetta perché tu non puoi dirmi cosa devo e non devo fare, e la metto come immagine del profilo perché è figo. Così come è figa la foto del corpo di un bambino di cinque anni morto su una spiaggia qualsiasi della Sicilia in seguito a un naufragio. È figo dire che Marquez ci doveva restare secco perché Rossi non andava provocato, è figo sostenere il proprio partito (politico, sportivo, di alimentazione o di costumi in generale) in modo forte e basta. L’arma è la forza con cui diciamo le cose, non le cose che diciamo.

E allora stasera torno a casa e scrivo un post augurando la morte a tutti, visto che odiamo tutto e tutti, anzi lo faccio subito che ho lo smartphone, magari mi mettono anche a scrivere una delle nuove serie tivvù dalle trame impossibili.

I cinquanta like sono assicurati.