Un viaggio nella storia e nella tradizione campana
“ Lacryma Christi ? Questo è sangue mio!” diceva Totò nel famoso film “47 morto che parla”. In effetti, il Lacryma Christi non è solo il sangue di Antonio de Curtis nel celeberrimo lavoro cinematografico del ’50: il Lacryma Christi rappresenta, per certi versi, Napoli e la Campania tutta. Dunque, non sbagliava il Barone Peletti nella pellicola diretta da Carlo Ludovico Bragaglia, ad esclamare: “E io pago!”.
Avarizia, a parte, il vino della Terra Felix per antonomasia, è davvero prezioso. A sostenerlo, gli esperti del settore enologico che hanno fatto sì che il prodotto campano fosse fregiato del marchio D.O.C. Del resto, il Lacryma Christi, definito “ divino ” da chi di vino ne capisce, è stato da sempre indissolubile dalla religione. Si pensi, ad esempio, alla sua produzione legata ai monaci oppure al dio Bacco che “amò queste colline più delle native colline di Nisa”. Insomma, già i Romani apprezzavano i prodotti della terra vesuviana nei loro banchetti che, a dirla tutta, di divino avevano ben poco, mescolando il piacere della carne a quello del palato. Un palato, quello dei degustatori di ieri e di oggi che viene soddisfatto in pieno dalle diverse varietà di uva della zona vesuviana che danno vita al Lacryma Christi rosso e a quello bianco, oltre che a quello rosato. In particolare, i vitigni Coda di Volpe, Verdeca, Falanghina e Greco sono i protagonisti della produzione “bianca”; Piedirosso, Sciascinoso ed Aglianico, invece, quelli della produzione “rossa” e “rosata”.
Insomma, che stiate mangiando il famoso ragù napoletano o una delicata spigola pescata nel golfo partenopeo, il Lacryma Christi, come si dice a Napoli, “c’azzecca”. E “c’azzecca” a Trecase e a Torre Annunziata così come a Somma Vesuviana, a Portici o nel resto del mondo. Non a caso, infatti, il vino ha rinomanza internazionale e costituisce un vero e proprio simbolo per gli autoctoni, per i figli degli emigranti e per gli amanti del vino sparsi in tutto il mondo. D.O.C. campano dal 1983, il prodotto ha servito ad hoc intere generazioni di bevitori esperti e non.
Il gusto più o meno carico risulta, infatti, gradevole a degustatori di tutte le età e tipologie. Risalendo poi, all’etimologia, viene da dire: perché “ Lacryma ”? Secondo la leggenda le lacrime sono riconducibili a quelle di Dio che, osservando il golfo di Napoli , vi riconobbe, data la sua enorme bellezza, un lembo di cielo strappato al Paradiso. In realtà, la denominazione deriverebbe dalle lacrime di zucchero che gli acini di uva secernono. A dire degli esperti, solo e soltanto se la raccolta avviene quando si presenta questa condizione nonché raggiungendo la gradazione alcolica minima naturale di 12% volume, possiamo parlare di Lacryma Christi.
In ogni caso, una cosa è fuor di dubbio: da tutti conosciuto quali “ Lacryma del Vesuvio ”, il famoso vino è ormai un vero e proprio simbolo di riconoscimento della Campania nel mondo ed è altrettanto certo che di lacrime versate nei riguardi del Vesuvio ce ne siano di due tipi, di gioia e di dolore. Come non immaginare i tristi emigranti che rivolgono al gigante montano un ultimo sguardo prima di separarsene? E chi, almeno una volta, non ha gioito scrutando la figura del vulcano partenopeo dal finestrino di un treno o di una nave? E’ questo e molto altro quello che simboleggia il Lacryma Christi.
Del resto, è proprio dalle pendici del Vesuvio che esso nasce, grazie all’innata fertilità del territorio, ricco di minerali e “caloroso”, in tutti i sensi. Un calore, quello insito nella terra partenopea, capace di “sprigionare” un gusto unico, vulcanico, incontenibile, ma allo stesso tempo racchiuso in un calice di vino, frutto di storia, tradizione, passione.
Sei sempre bravissima. I miei complimenti.