“La verità non è solo violata dalle falsità; può essere ugualmente oltraggiata dal silenzio”. (Henri Frederic Amiel)
Cosa s’intende per silenzio?
Il silenzio è un termine dalle mille sfaccettature che conducono a significati tra loro diversi.
Il silenzio, in senso generale, può essere definito come l’assenza di qualsiasi forma di rumore, di voce e di suono. Inoltre, esso può anche essere un sinonimo di pace, di estraneazione dal mondo che ci circonda.
Ma con il termine silenzio si fa riferimento anche all’inerzia di una persona sollecitata a parlare o ad esprimere la propria volontà e quindi a comunicare. Paradossalmente, questo è il caso in cui il silenzio fa “rumore”. Questo è quel silenzio che comporta l’omertà
L’omertà è quell’atteggiamento silente che è “espressione” della volontà di non collaborare con la giustizia, che esclude intenzionalmente di denunciare reati o infrazioni gravi di cui si è a conoscenza, nascondendo l’identità del colpevole e non consentendo l’irrogazione della pena. Può essere causata dal timore o dalla paura derivante dalla violenza fisica o psicologica,
ma anche da ragioni pratiche sostenute da interessi o consorteria.
L’omertà trae la sua origine dalla c.d. “legge del silenzio” vigente in Italia, soprattutto nel Mezzogiorno, che consentiva al reo di non essere punito dalle leggi, ma dalla vendetta privata.
La sua etimologia è da ricercarsi in una variante napoletana del termine umiltà, intesa come regola di solidarietà ed obbedienza imposta agli affiliati ad un’organizzazione criminale, ma potrebbe riferirsi anche all’ “omineità” siciliana, ovvero la virilità intesa come qualità degli “uomini d’onore”.
L’omertà è un’offesa all’intelligenza e al libero arbitrio delle persone, è una repressione dei valori e delle libertà fondamentali su cui si fonda un sistema democratico ed è, probabilmente, questo lo scopo primario perseguito, attraverso la violenza o minacce, da coloro che impongono con la coartazione il silenzio. È lo strumento utilizzato in un perverso gioco di potere che i più forti impongono sui più deboli, facendo leva su questa caratteristica che comunque è innata nel genere umano giustificata da ragioni di quieto vivere, anche rispetto a situazioni che non sono propriamente collegabili alle organizzazioni criminali, ma ad esempio collegabili a quelle situazioni connesse alla P.A (anche se in questo caso si parla di silenzio assenso), ai rapporti tra privati cittadini o semplicemente ai rapporti interpersonali.
Ad ogni modo, è inevitabile che quando si parla di omertà si faccia riferimento alle organizzazioni criminali che non accettano forme di opposizione.
Emblematica, in tal senso, fu la “lettera a Gomorra, tra killer ed omertà” pubblicata da “La Repubblica” e scritta da Roberto Saviano, in cui lo scrittore elencò diversi casi di cronaca connessi a stragi compiute nell’hinterland napoletano dal Clan dei Casalesi, facendo, ad esempio, riferimento alla “Strage di Castel Volturno”, durante la quale trovarono la morte sei immigrati africani, vittime estranee agli affari di camorra, e il pregiudicato Antonio Celiento, sul quale il Clan dei Casalesi aveva il sospetto che fosse un informatore delle forze dell’ordine; oppure all’uccisione di Michele Orsi, a Casal di Principe, imprenditore dei rifiuti vicino al clan che iniziò, dopo il suo arresto, a collaborare con la giustizia, confessando le malefatte circa lo smaltimento dei rifiuti e svelando un conflitto d’interessi tra la camorra, lo smaltimento dei rifiuti e la politica; oppure all’omicidio del padre di Domenico Bidognetti, Umberto.
Nella lettera, Saviano scrive: “Non posso credere che riescano a resistere soltanto pochi individui eccezionali. Che la denuncia sia ormai solo il compito dei pochi singoli, preti, maestri, medici, i pochi politici onesti e gruppi che interpretano il ruolo della società civile. E il resto? Gli altri se ne stanno buoni e zitti, tramortiti dalla paura? La paura. L’alibi maggiore. Fa sentire tutti a posto perché è in suo nome che si tutelano la famiglia, gli affetti, la propria vita innocente, il proprio sacrosanto diritto a viverla e costruirla.
Ma non avere più paura non sarebbe difficile. Basterebbe agire, ma non da soli. La paura va a braccetto con l’isolamento. Ogni volta che qualcuno si tira indietro crea altra paura, che crea ancora altra paura, in un crescendo esponenziale che immobilizza, erode, lentamente manda in rovina.
Perché se tutto ciò è triste la cosa ancora più triste è l’abitudine. Abituarsi che non ci sia null’altro da fare che rassegnarsi, arrangiarsi o andare via. Chiedo alla mia terra se riesce ancora ad immaginare di poter scegliere. Le chiedo se è in grado di compiere almeno quel primo gesto di libertà che sta nel riuscire a pensarsi diversa, pensarsi libera. Non rassegnarsi ad accettare come un destino naturale quel che è invece opera degli uomini”.
Paolo Borsellino diceva: “La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quella della complicità”.
“Parlare”, in questi, casi è un obbligo morale, un dovere civico a cui non bisogna assolutamente sottrarsi per non essere soggiogati da un “sistema” turpe che ci chiede proprio di stare in silenzio, in modo tale da potersi muovere indisturbato come la peggiore delle malattie che, quando viene scoperta, è già troppo tardi.
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