“Napoli è fatta di vuoto, per questo voglio che sia tu a parlarmene , a modo tuo, perché il fischio racconta benissimo questa città, fatta di fischio anch’essa.” *

Gli abitanti di una città che da secoli si regge su un suolo cavo e tenero, sviluppano nel corso della storia un senso di equilibrio incerto e accrescono in loro una buona dose di rischio voluto.

Non si ferma certo al suolo tufaceo di Napoli il nostro approfondimento, ma inevitabilmente si cerca di percorrere le vicende che hanno qualificato la città del sole come monumento perfetto della precarietà. Un equilibrio geologico, culturale e sociale sottile e instabile, ma perfettamente efficace. I rischi che un cittadino in qualsiasi angolo del mondo può incontrare nel corso di una giornata sono innumerevoli, forse sempre nuovi ogni giorno che passa.

Ma cosa bisogna aspettarsi quando si cammina a Napoli? Dove si ferma il dubbio e la paura? Quando è necessario smontare e lasciar perdere finalmente i pregiudizi?
E’ inevitabile non menzionare l’instabilità di gran parte della città dal punto di vista strutturale, urbanistico; dai cornicioni dei palazzi del centro storico sempre pronti a cadere, all’ imminente voragine in una delle colline. Vuoi per la fittissima rete di gallerie sotterranee, vuoi per le cave di tufo dismesse ma mai controllate, vuoi per il Vesuvio che è sempre lì con gli occhi addosso, in bilico ci si sente costantemente, ogni giorni a casa propria, in strada, in una piazza. La precarietà è soprattutto sociale a Napoli, le disuguaglianze sono diventante ancora più importanti negli ultimi anni, con una crisi globale che ha colpito innanzitutto le fasce già disagiate, i quartieri a rischio. Nonostante la fervida fantasia delle persone, i pregiudizi risultano essere molto lontani dalla realtà della città, è quasi impossibile attribuire degli aggettivi che indichino in modo unitario le caratteristiche dei napoletani; la precarietà perciò è insita non solo nei pregiudizi, ma nell’identità di Napoli. Oltre alle cicliche crisi economiche, che  proprio a Napoli sembra non mollino mai la presa, il senso di precarietà sociale si è evidentemente manifestato con pessimi interventi da parte delle istituzioni e privati, che hanno celato non solo i problemi atavici, ma il senso di appartenenza di un’intera popolazione.

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Ponte di Chiaia, Via Chiaia, Napoli.

Una univoca e instabile immagine stereotipata di Napoli si smonta così con una evidente eterogeneità nel reale. Gli interventi urbanistici sono quelli che hanno compromesso irreversibilmente un naturale processo di equità sociale e imparziale crescita territoriale.

Si è cercato nel corso degli anni di costruire un’immagine solida e moderna, adatta ai nuovi tempi, la città doveva essere pronta a ricevere le spinte industriali della fine del 1800 che stavano rivoluzionando il modus vivendi dei cittadini nelle neonate metropoli. I maestosi “boulevard” che alla fine del XVIII secolo hanno solcato prepotentemente i quartieri popolari di Parigi, facilitando la mobilità cittadina e dando un aspetto moderno e arioso alla città industriale, hanno contribuito a delimitare i confini di zone spesso malfamate, sporche, pericolose. L’esempio francese non sfugge al resto d’Europa, e ovviamente Napoli è la cavia dello stesso esperimento; di certo lo spazio e la mole dei lavori è molto ridotta rispetto agli enormi quartieri parigini, ma il risultato è lo stesso. La nuova fotografia dei quartieri popolari sconvolge gli abitanti, guida lo sguardo in una prospettiva inusuale per la città, fatta fino a quel momento di una rete fittissima di vie, larghi e palazzi.

L’ immagine moderna è senza dubbio la metafora perfetta della precarietà di Napoli; strade nuove e larghe, piazze ariose, palazzi borghesi, insomma veniva costruito tutto quello che era utile per nascondere sotto il tappeto della “modernità” la fatiscenza delle zone antiche. Un metodo sicuramente efficace per isolare, senza preoccuparsene troppo, i palazzi cadenti e il popolo affamato. Alle spalle del nuovo il vecchio continuava e continua a cedere, si è continuato a speculare e mai a risolvere, tutto è lasciato in bilico, i cittadini in primis.

L’immagine della Napoli “nuova” è sempre stata instabile, perché costruita con progetti di sviluppo e ammodernamento inesistenti, mai pensati per il popolo ma contro. La parentesi urbanistica serve a mettere a fuoco i problemi evidenti di alcune zone, che sono sicuramente interessati da drammi più importanti e seri, ma non si può pensare di poter costruire un aspetto nuovo, curato e civile di una parte della città, senza considerare e risanare seriamente e con costanza la cornice in cui i cittadini si muovono e vivono tutti i giorni.

Nonostante i mille volti della precarietà e del senso di smarrimento che spesso si nota tra le strade, c’è tuttavia un flusso positivo e mai arreso alle note dolenti del territorio; la volontà rivoluzionaria del popolo napoletano. Ci si arrampica sui dirupi più difficili, si evitano situazioni ambigue e si “campa alla giornata”, il popolo di Napoli è un popolo che s’è forgiato dal rovente calderone della “malasorte”; colate di lava, pioggia di cenere, montagne di monnezza, fiumi di sangue, vortici di politici di poca fede.

È una città che digerisce se stessa creando ogni giorno, nonostante i mal di pancia atroci che è costretta spesso a sopportare, un alter ego brillante che è pronto ad esplodere di stupore.

Una città come le altre, al tiro dei beceri e degli ignoranti, alla lente di ingrandimento dei media miopi, nel mirino della debordante macchina del fango. Precari i pregiudizi come precari i pareri dei ciechi che non vogliono scoprire la bellezza. C’è una città che sorregge l’altra, una mano tesa e giovane che cerca di celare le brutture dell’altra, sporca.
Sempre in piedi, nonostante le mille paure e gli insulti, sulle efficacissime fondamenta dell’altruismo dei napoletani e del tufo sgretolato.

“Tutto questo vuoto che sta sotto i piedi dei Napoletani, si è trasformato tutto in barocco, in canzoni, in palazzi eleganti e in enormi costruzioni […] , in vuote e ridondanti vocali, in aggressioni verbali, in sfottò autocelebrativi, in autoflagellazioni teatrali, in un processo perenne di sublimazione dello zolfo, del tufo, dei fiumi sotterranei. “*

*La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin, Enrico Ianniello, Narratori Feltrinelli, 2015