Quello che noto per prima in Erri De Luca, nel sedermici accanto, sono le mani.
Mani da lavoratore, da operaio. Graffiate, consunte, usurate, attraversate da una vita piena e inconsueta per un intellettuale così come comunemente inteso nel nostro immaginario.
La pelle è sottile, si piega sul viso come l’arca di una fisarmonica a riposo.
La voce è solida, un narrare sinuoso che non vorresti interrompere mai perché porta con sé la ruvidezza di un mondo interiore intenso e misterioso. Una ruvidezza piacevole che ti dà l’idea di parlare con un mistico, nonostante la semplicità delle parole, la fluidità dei concetti, il sospiro breve che intervalla le frasi come fossero un verso scandito dal ritmo naturale del respiro.
E, come ogni artista che si rispetti, Erri De Luca riesce a farti cadere in quel breve intervallo e, senza che tu te ne renda conto, a portarti nel suo mondo. Come nella scrittura, così nella conversazione.

E’ il 6 novembre e siamo all’Hotel Chiaja de Charme dove, tra pochi minuti, Erri De Luca parlerà del suo ultimo libro, “Il più e il meno”, di diritti civili e delle recenti esperienze giudiziarie che lo hanno coinvolto. Il tutto nella cornice di Poeté, rassegna letteraria condotta da Claudio Finelli.
Parlerà di Pier Paolo Pasolini che definirà un Sartre italiano, unico intellettuale della sua generazione ad attaccarsi alla materia della sua letteratura, uno scrittore che non inventava ma “assorbiva”, un uomo dotato di coraggio fisico, un pensatore che non tentava di addomesticare il suo pensiero, ma che rasentava l’orlo di ogni questione permettendo ad ogni lettore di farsi un’opinione propria.
Parlerà di Napoli che è ciò che la geografia e la natura hanno scelto che fosse, un posto spalancato che accoglie e accompagna all’uscio, l’ombelico del Mediterraneo.
Parlerà della popolazione della Val di Susa che esercita il suo diritto di legittima difesa contro la TAV Torino-Lione, un’opera inutile e dannosa, nei cui confronti il suo esercizio della libera parola è divenuto un affronto alla legge, talvolta così lontana dalla giustizia.

Ma, per pochi minuti, Erri De Luca mi dedica il suo sguardo e le sue parole in una breve intervista, improvvisata e spontanea. Poi tornerà a firmare autografi e a concedere fotografie, a rintanarsi nei gesti di chi sembra capitato lì per caso, con le palpebre abbassate sulle copertine dei suoi libri che gli passano avanti come scartoffie da vagliare.
Passa un dito veloce tra il collo e la camicia. Stiracchia un po’ il collo.
L’aria semplice e un po’ spaesata. Gli occhi in un altrove che non puoi inseguire.
Erri De Luca è così.
Inconsapevolmente scrittore, anche quando non scrive.

Lei ha sempre parlato di Napoli come di una città meravigliosa e ha anche affermato che è solito ritornare alla sua Napoli, quella della sua infanzia e giovinezza, attraverso la scrittura come visionario. Cosa intende con questa espressione?
Riesco ad essere visionario proprio attraverso la scrittura. Riesco a ricostruire il luogo, il posto, attraverso un colpo di memoria. Quei luoghi che, per ovvie ragioni, ora sono cambiati, io riesco a vederli esattamente come erano prima.
Questa è una capacità visionaria ovviamente all’indietro. Non sono un visionario nel futuro, ma nel passato.
L’essere visionario, però, porta in sé il rischio di idealizzare la nostra città. In tal modo ci si allontana dalla verità di Napoli o ci si avvicina ad essa?
No, non scivolo nell’idealizzare. Questa città è molto concreta e idealizzarla è tradirla in partenza.
Per mio temperamento, poi, sono molto più diretto e concreto che idealistico nei miei pensieri.
Chi idealizza questa città la fraintende.
Nel suo ultimo libro, parla anche di Giancarlo Siani. Che ricordo ne ha?
All’epoca mi trovavo a Napoli. Era l’autunno dell’80, dopo il terremoto.
Ero venuto a lavorare qui nei cantieri della ricostruzione. C’era ancora un giornale che si chiamava “Lotta continua” che io conoscevo bene per averci militato dentro quel movimento. Era poi diventato solo un giornale.
Da Napoli scrivevo delle cronache per quel giornale, cronache che si spedivano dalle poste centrali perché c’era una telescrivente.
Lì ho incontrato Giancarlo e siamo diventati facilmente amici.
Lui aveva scritto degli articoli per “Lotta continua”, andava a prendersi le notizie direttamente sul posto, non se ne stava in qualche redazione aspettando l’ANSA o qualche soffiata. Era interessato, sapeva raccogliere le notizie, suscitare la curiosità e l’interesse. Era un giornalista.
Reputa che questo tipo di giornalismo esista ancora?
No. Il giornalismo è completamente finito, il giornalismo d’inchiesta, quello sul terreno non esiste più.
Chi lo pratica ancora è qualche free-lance che poi tenta di venderlo a qualche giornale che, invece, non ha alcun interesse a disturbare i manovratori dell’informazione.