“Mimi, lo sai quando si piange? Quando si conosce il bene e non si può avere.
E io bene non ne conosco: la soddisfazione di piangere non l’ho potuta mai avè.”
C’è una scena in “Matrimonio all’italiana”, il film tratto dal dramma “Filumena Marturano”, che mi ha sempre emozionato.
Nel salone della sua casa, affacciato su piazza del Gesù Nuovo, Filumena piange.
Non è una scena di grande impatto così descritta. Eppure è emozionante se si conosce la premessa: Filumena non ha mai pianto perché, a suo dire, pur avendo immensamente amato, non ha mai conosciuto prima di allora la felicità.
Amare. Essere felici.
Ci si sente a disagio sia a dire sia a smentire questo connubio. Ma, che sia equivalenza o discrasia, il ricordo di un amore torna inevitabilmente a farci visita nella sua impossibilità di inquadrarlo, nella sua carenza di congruenze.
Filumena, prostituta, poi amante per più di vent’anni, è il simbolo di quanto l’amore possa essere ambivalente e contraddittorio.
La sua vendetta è un piano di congetture formulate su un amore, il più terribile che si possa immaginare, quello per un “salvatore” che ci salva da noi stessi e poi ci incatena alla nostra stessa dipendenza, senza darci la possibilità di fuggire e non sentirci inevitabilmente vuoti.
E, anche al sentirsi vuoti, lo star male sembra preferibile.
Perché rispetto, dignità e fermezza iniziano a precipitare lì, in quella gola che sfocia all’altra bocca, sull’altra faccia dell’amore. Una faccia che è irrigidita in un ghigno sottile e ambiguo, una smorfia tra il dolore e il piacere, dai lineamenti sfatti e le palpebre sollevate su occhi rovesciati.
“Com’è cambiato il mondo, e com’è sempre uguale! Case, palazzi, grattacieli, e in mezzo un dramma vecchio come il nostro.”
Scindere. Scinderci.
E’ questo che proviamo a fare quando precipitiamo nell’altra faccia dell’amore, quella fatta di lacrime e rovine, di stasi e giorni che si allungano in un’unica notte fino a trattenerci in un danno costante e rumoroso.
Ci sforziamo di separarci, di stare male in una sola parte di noi, di far cadere il resto nella quotidianità dei giorni passati, quelli che abbiamo quasi dimenticato dopo che, con un telefono girato e rigirato tra le mani e il respiro attraversato da brusche interruzioni, abbiamo subito la violenza pressante dell’innamoramento.
Ma niente.
Tornare indietro è impossibile.
Non ci resta che andare avanti su un sentiero mai percorso da nessun altro: ogni amore è diverso dall’altro, ogni Filumena ha le sue ragioni per restare, amare fino alla fine e nonostante tutto.
Alla fine, Filumena ce la fa. Il suo amore è ripagato, la sua costanza è il suo vanto, i suoi figli recuperati il suo premio ineguagliabile.
Ma c’è chi ama a vuoto, fino a dissacrare la parola stessa di “amore” nell’inutilità di una sofferenza che appariva evitabile.
E’ questo che ci insegna Filumena.
E’ questo che ci insegnano i romanzi, i film, le storie, le vite. L’amore non va giustificato. Non va rimpianto. Nemmeno quello sprecato, nemmeno quello scivolato dall’altra parte, sull’altra faccia, e mai più ritrovato.
E’ un monito un po’ subdolo, una rivelazione ben giostrata da forze più grandi che ci intimano di perseverare prima di arrivare alla soluzione: alla fine si piange. Di gioia. Di dolore. Di soddisfazione. Di rabbia. Non importa, si piange pur sempre d’amore.
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