“Scelsi il treno, l’orario, non mi affidai al caso di un passaggio: volevo governare la partenza. Presi posto al finestrino e restai fisso a guardare fuori la processione del mio addio. Mentre mi staccavo, la città mi finiva sotto pelle come quegli ami da pesca che, entrati dalle ferite, viaggiano nel corpo, inestirpabili. Nel chiasso delle molte porte sbattute, la mia la chiusi piano…”
Napoli, gli stereotipi che la sfiancano, il dolore e quella sensazione inenarrabile legata al distacco da essa, sono temi che ‘Napòlide’, romanzo di Erri De Luca, porta a galla in modo egregio. Attraverso la sua prosa ‘poetica’, l’autore partenopeo oggi sessantacinquenne, passa al lettore concetti di estrema crudezza con eleganti metafore, con una retorica ricercata ed alta: sembra quasi non riuscire a fare altrimenti se l’argomento principe ruota intorno alla sua Napoli.
A partire dalle primissime pagine del libro, la sua poesia riesce a rendere meno amari quei pugni allo stomaco, quei bocconi ingoiati forse da troppo giovane ( il protagonista, Erri, è appena diciottenne il giorno in cui va via da Napoli nel 1968) mentre il treno lo allontanava dalla sua città a cercar lavoro, una realizzazione professionale; è una Napoli che non gli perdonerà la partenza, che proprio quel giorno lo sta rendendo ‘Napòlide’ e quindi inadatto a vivere in qualsiasi altro contesto, in qualsiasi altro posto al mondo: “Napoli negli incubi e sulle cartoline”.
Ad ogni ritorno persino gli odori risultano diversi: gli stessi odori stampati nel cervello, dall’infanzia, perdono di una consistenza temporale e vengono sostituiti, rimpiazzati “da altri gas”. Quando scende gli scalini del treno, non si sente tornato: ma solo e con un diritto più intimo che si prova altrove. “Una città non perdona il distacco, che è sempre una diserzione. Sono d’accordo con lei, con la mia città: chi non c’era, chi è mancato, ora non c’è, è decaduto il suo diritto di cittadinanza”
Il libro consta di 98 pagine e, fatta eccezione per il primo capitolo, ‘Napolide’, della lunghezza di 30 pagine, gli altri capitoli risultano abbastanza brevi ed incentrati su tematiche caratteristiche della città partenopea: per dirne alcuni il Molo di Mergellina, Vulcanici, Calcio, Totò, Eduardo, Giancarlo Siani, Maradona ed in ultimo la Pasta; e proprio sull’ultimo capitolo riprende il volo la fantasia e alla stesso tempo la sensibilità dell’Erri scrittore: di quest’uomo che da solo, in cucina, si apparecchia la cena. Prepara ogni cosa, ma sistematicamente, quando è il momento di prendere i bicchieri, si accorge d’esser solo tanto che non ricorda da quanto ormai non è più in due. Guarda fuori dalla finestra piovere, e solo in quel momento si accorge che è il giorno di Natale; magra consolazione quel bicchiere di vino, crocevia di una malinconica disinibizione che altera le percezioni e reprime le sofferenze di anche quella sera.
Vince lo stereotipo in questo libro proprio come nella realtà. Erri guarda la sua Napoli e la descrive proprio con quegli occhi lì, con gli occhi di chi va via e stenta poi a ritrovare il rapporto più intimo con la madrepatria, anche se il desiderio ultimo è quello di non uscire mai dalle braccia di mamma. Come lo stesso libro sentenzierà:
“Su Napoli non si ha diritto di sguardo dall’alto, solo il vulcano ha titolo per sovrastare. La sua orbita sta spalancata nelle cartoline e negli incubi. E’ bene che resti cieca…”
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