Il 15 aprile del 1967, a Roma, moriva Totò.
Chiudeva gli occhi il Principe Antonio De Curtis, un’icona del suo tempo e di Napoli, il genio della comicità e non solo; e con egli, lentamente si spense anche una generazione, quella del secondo dopoguerra, provata dalla fame e dalle privazioni, con gli occhi ancora inorriditi dal conflitto da poco cessato. Ma il suo mito resta intatto, così come indimenticati restano i suoi film, di rara bellezza le sue poesie, di gusto raffinato le sue canzoni. Totò vive oggi forse più di ieri.
Quella generazione lì, non lo ha mai dimenticato: quelle sue battute, quelle sue smorfie, il suo modo di far ridere e riflettere in modo simbiotico, le sue movenze. Anzi Totò divenne, soprattutto dagli anni ’50, un pretesto per riunirsi, il cantastorie sempre gradito e in ogni suo film l’Italia intera trovava modo di sorridere, trovava lo spunto per meditare su un presente intriso di difficoltà.
“Sono ormai all’età in cui si tirano le somme e non ho fatto nulla.
Sarei potuto diventare un grande attore, e invece su cento e più film che ho girato, ve ne sono di degni non più di cinque. Ma anche se fossi diventato un grande attore, cosa sarebbe cambiato? Noi attori siamo solo venditori di chiacchiere. Un falegname vale certo più di noi: almeno il tavolino che fabbrica resta nel tempo, dopo di lui”, dirà lo stesso Totò in un’intervista del 1965, quando con Fellini giungerà ad un cinema più maturo. A noi piace smentirlo inquesta sua autocritica e pensare che in ognuno dei suoi 97 film ciò che veniva fuori in modo emblematico era quella sua ‘napoletanità’ genuina e vulcanica, pensierosa ma leggera, pittoresca e poi reale: la generazione dell’oro di Napoli, quella della famiglia De Filippo, della Loren, di De Sica era proprio una sua creatura.
Sarei potuto diventare un grande attore, e invece su cento e più film che ho girato, ve ne sono di degni non più di cinque. Ma anche se fossi diventato un grande attore, cosa sarebbe cambiato? Noi attori siamo solo venditori di chiacchiere. Un falegname vale certo più di noi: almeno il tavolino che fabbrica resta nel tempo, dopo di lui”, dirà lo stesso Totò in un’intervista del 1965, quando con Fellini giungerà ad un cinema più maturo. A noi piace smentirlo inquesta sua autocritica e pensare che in ognuno dei suoi 97 film ciò che veniva fuori in modo emblematico era quella sua ‘napoletanità’ genuina e vulcanica, pensierosa ma leggera, pittoresca e poi reale: la generazione dell’oro di Napoli, quella della famiglia De Filippo, della Loren, di De Sica era proprio una sua creatura.
Lui, aristocratico, figlio del Marchese Giuseppe De Curtis, sistematicamente si calava nei vicoli della sua Napoli, e nella fame e negli stenti si esprimeva da Dio; tra il 1937, anno del suo primo film “Fermo con le mani”, al 1967, i film di Totò furono visti da 270 milioni di persone, un ‘unicum’ nella storia del cinema italiano. Il suo mito crebbe al punto da essere accostato a comici del calibro di Charlie Chaplin e Buster Keaton.
“Sta Napl, legger e seren,
che cchiù a guardamm e cchiù a vulimm ben
Ij a teng san san rin’t ‘e vven…”
Con la sua Napoli un intreccio indissolubile:
“Portatemi a Napoli…”, furono le sue ultime parole prima dmorire.
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