Un avvallamento, neanche troppo graduale, che porta le colline a gettarsi in acqua senza preoccuparsi troppo della morbidezza dei loro dorsi. Fino all’inizio del 1900 le alture circondavano la città aiutando a delimitarne i confini, e in tempi ancora più remoti erano un’ottima cinta di difesa naturale. Vigneti, broccoli e macchia mediterranea tutt’intorno al centro abitato, un’urbanistica elementare colma di palazzi e viuzze. Un aggregato di tufo in mezzo a un polmone verdissimo.
Certo i sovrani erano astuti nel controllo dell’espansione della cinta muraria, e d’altronde la città aveva le sue mura, e proprio nessuno aveva il diritto di andarsene a costruire al posto dei broccoli verdi del Vomero. Stretti tutti in quei vicoli affollatissimi del centro (quello che oggi chiamiamo “i decumani”), i napoletani erano stanchi e disgustati dalle condizioni abitative delle loro strade. Il popolo, ma soprattutto i nobili, che non avevano altro modo di ostentare la loro ricchezza sui palazzi se non facendo costruire i più bei portali e le più belle scale, arrivando agli eclettismi più bizzarri. Ma chi noterebbe un maestoso portale adornato da mezzi busti, colonne in piperno e timpani in marmo bianco in un vicolo largo poco più di due metri? Solo un occhio attento e curioso.
Era necessario trovare una soluzione, la città doveva “respirare”, i nobili avevano, in un certo senso, il dovere morale di farlo.
Si decise di rilasciare i primi permessi, intorno alla seconda metà del 1600: i primi casali iniziavano così a germogliare come ginestre qui e lì sulle colline extra moenia, fuori le mura. C’era però una zona molto ambita, oltre alla collina di Posillipo e alla zona di Chiaja. Un luogo silenzioso e verdissimo, con aria salubre: il vallone della Sanità. Questa volta i nobili non scelsero le colline; lontano dal panorama del mare, cominciarono a curarsi di più della propria salute, a lasciarsi attrarre dalla quiete che vi avrebbero trovato. Col tempo iniziarono a costruire su un fazzoletto di terra in declivio per una decina di metri tra il chiassoso centro e la collina di Capodimonte.
Da quel momento in poi ognuno avrebbe avuto la possibilità di mettere in mostra il proprio benestare con coloratissimi palazzi, maestosi portali, scale e androni degni delle famglie più blasonate (palazzo dello Spagnuolo, palazzo Sanfelice).
In un paio di secoli questo nuovo quartiere divenne uno dei centri eleganti e fiorenti della città; ebbe sempre l’onore, negli anni tra Sette e Ottocento, di essere attraversato dai re che desideravano riposarsi e andare a caccia nella loro reggia a Capodimonte, che imponente scruta tutt’oggi i palazzi nobiliari sotto la sua ombra.
Ognuno cercava riposo nella Sanità.
D’altronde, secondo le più varie ipotesi, il nome della zona deriverebbe proprio dal fatto che in questi secoli la zona fosse così tranquilla e salubre da dare beneficio alla salute di chi ne aveva bisogno, di chi scappava dallo sguaiato centro. Una zona serena non solo per i nuovi arrivati, ma anche per i suoi primi “abitanti”. Risalgono agli insediamenti greci le sepolture ritrovate in questo quartiere e successivamente anche gli antichi Romani utilizzarono la zona come spazio adibito alla sepoltura. Nei secoli successivi alla datazione delle prime tombe, altri corpi trovarono riposo nelle nicchie scavate nel tufo, quelli dei cristiani, i devoti di San Gennaro. Il corpo del martire venne portato presumibilmente tra il IV e il V secolo proprio nelle catacombe che si sviluppavano nelle viscere della sua Napoli, tra la collina di Capodimonte e la parte alta della Sanità. Scendendo la collina, laddove adesso sorge l’imponente chiesa barocca di S. Maria alla Sanità, fu ricavato un complesso sistema di ambienti comunicanti (oggi chiamate Catacombe di San Gaudioso) dove gli appartenenti ai ceti alti della città reclamavano una tomba degna del proprio status sociale. All’interno di questa lugubre galleria la vista dei resti mortali di queste persone lasciati a diventare polvere, incastrati nelle pareti di tufo, si univa a quella di affreschi tutt’oggi godibili che raffigurano ciò che questi uomini e donne erano stati in vita: rappresentanti delle professioni più distinte della società civile.
Per secoli tutte queste anime hanno riposato insieme, accarezzate dal silenzio.
La zona si stava delineando a poco a poco come un enorme cimitero che abbraccia secoli e secoli di storia della città, e nel ‘600 altre anime si unirono a loro: la peste fu un flagello violentissimo, la popolazione napoletana fu decimata, i corpi si contavano a migliaia e lo spazio, neanche a dirlo, non ce n’era. Laddove si scavava la pietra per costruire i palazzi che avevano protetto le persone durante la loro vita, ora venivano poste delle salme. Il cimitero delle Fontanelle è così uno dei chiarissimi esempi napoletani di riuso.
Non si può non essere consapevoli della storia di questo quartiere vivissimo, aggettivo che diventa quasi un ossimoro accanto a quanto scritto, quando si entra nelle sue strade, quando lo si scopre camminando senza meta. Non si può non essere curiosi quando lo sguardo si affaccia sul borgo dei Vergini e viene attratto da una prospettiva efficace, ammaliante. Il folclore e la vivacità del quartiere moderno sono caratteristici di tante altre zone popolari di Napoli che hanno avuto, più o meno, storie molto simili in tempi recenti. Tuttavia, la città ha l’impressionante capacità di nascondere, proprio dietro l’angolo, degli spazi quieti, dove c’è la possibilità di mettersi a pensare, di osservare attentamente e di ricordare e scoprire. Ogni nostro passo deve guidare lo sguardo da una strada all’altra, dobbiamo solo raccogliere la storia che ci è stata donata e assumerci la responsabilità di tutelare il possibile. In questo quartiere non è difficile farsi un esame di coscienza, basta fare due passi per accorgersi che si sta camminando su antichi cimiteri, che trovarsi a parlare con una “capuzzella” o ad osservare loculi vuoti non è poi un’esperienza così bizzarra.
La Sanità offre ogni tipo di scelta, basta farsi guidare dai sensi. E ricordiamoci di non battere troppo i piedi a terra, c’è chi riposa da duemila anni e vuole nu’ poco ‘e pace.
Simeone Colucci
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