Da Genova a Trieste, da Nord a Sud e viceversa. Un viaggio nell’Italia della seconda metà degli anni ’50 a bordo di una Fiat 1100. Ci sono diverse tipologie di viaggi: quelli di lavoro, quelli di piacere, di visita, di svago…
Ci sono poi quelli che lasciano i segni sulle rughe della mano e del volto, perché viscerali, intimi.
Questo il viaggio che Pier Paolo Pasolini fa in Italia, a fine degli anni 50, un reportage unico nel suo genere, uscito in tre puntate sulla rivista “Successo” raccolto e pubblicato con il titolo “La lunga strada di sabbia”. Un’Italia che si scopre, si prepara ai grandi cambiamenti degli anni ’60 ma che ancora non riesce a specchiarsi nelle righe di “Una vita violenta”.
Un viaggio a forma di U, che avrebbe voluto segnare una unità che non esisteva e che forse non si è mai consolidata.
Dalla Liguria, fino ad arrivare a Triste, un viaggio che racconta una nazione borghese e industriale ed una “preumana e primitiva” che arranca: questa la visione di Pasolini, al suo arrivo, al Sud. L’inizio di questa sua Eneide è Ostia, la stessa città che sarà la sua ultima meta, soglia del Mezzogiorno, dove si trova solo con la sua millecento e tutto il Sud da scoprire. Fugge da Caserta, dalla decadenza della sua fantastica reggia. Arriva a Napoli e i suoi cittadini, belli e squallidi “come sanno esserlo solo i napoletani”.
La città lo investe con la sua vitalità: la prima notte va in giro ovunque, tra caffè, che si inaugurano e locali pieni a notte fonda; su e giù per tutto la zona, che va dal porto a Posillipo due volte, concludendo così: “ho fatto l’aurora, ho visto il Vesuvio così vicino, che lo si poteva toccare con una mano, contro un cielo, ormai rosso, avvampante, come non riuscisse più a nascondere il Paradiso”, come un pazzo assetato di vita.
Il viaggio di Pasolini non si ferma a Napoli arriva a Sorrento, a Ischia e a Capri città che cominciano a vivere il periodo di splendore del turismo. Viaggia proprio con il “battello carico di turisti sacrileghi”.
Mentre prova l’ebbrezza nel lasciare la città e arriva a Castellamare, da cui vede l’altra faccia del Vesuvio, non quello del Golfo e della cartolina ma quello distruttivo e pauroso, reale maschio di terra che con autorevolezza sovrasta il golfo.
Da qui si incammina verso la costiera, quella definita da Boccaccio la più bella del mondo. Pasolini descrive il popolo napoletano come “una grande tribù che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg e i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia o altrimenti la modernità. È un rifiuto sorto dal cuore della collettività contro cui non c’è niente da fare. Finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno, quando non ci saranno più, saranno altri. I napoletani hanno deciso di estinguersi, restando fino all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili ed incorruttibili”.
Nelle sue parole è riuscito a cogliere appieno lo spirito di una città che vive frenetica, assetata di vita, che si scompone in mille realtà. Una città del Sud e contemporaneamente gotica, nascosta tra mille segreti, mille traffici che solo una città di porto riesce a vivere. Un’atmosfera che affascina e spaventa, perché collegata a quell’aspetto più carnale dell’essere umano, l’istinto, orgiastico e caotico come un antico baccanale.
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